- Secondo un’indagine condotta a inizio anno dall’Osservatorio sulle tendenze e comportamenti degli adolescenti, i ragazzi di età compresa tra i 13 e i 18 anni trascorrono in media dalle 7 alle 13 ore al giorno su internet.
- Il rischio di imbattersi in contenuti pro-anoressia sul web esiste da almeno 15 anni, dall'epoca d’oro dei cosiddetti blog pro-ana, che oggi hanno ceduto il posto a gruppi privati su Whatsapp e Telegram, più difficili da intercettare dalla polizia postale.
- In Italia tre milioni di ragazzi soffrono di disturbi alimentari. Tre sono le diagnosi più diffuse: il 36 per cento soffre di anoressia, il 18 per cento di bulimia, il 12 per cento del disturbo di binge eating (alimentazione incontrollata).
«Cerco un gruppo pro-ana. Contattatemi in privato», per trovare richieste di questo tipo su Tumblr basta cercare la parola “pro-ana”. In un attimo immagini di corpi magrissimi, calcoli dettagliati delle calorie ingerite e obiettivi di peso da raggiungere nel minor tempo possibile invadono lo schermo. Lo step successivo è l’invito in un gruppo su Whatsapp o Telegram dove poter confrontarsi con persone malate di anoressia o bulimia nervosa.
Secondo un’indagine condotta a inizio anno dall’Osservatorio sulle tendenze e comportamenti degli adolescenti, i ragazzi di età compresa tra i 13 e i 18 anni trascorrono in media dalle 7 alle 13 ore al giorno su internet. Un modo per sentire meno il peso della solitudine, in particolare negli ultimi due anni di pandemia, durante i quali per molti ragazzi è stato più facile imbattersi in contenuti disfunzionali per il loro percorso di crescita. Fra i più fragili c’è chi si è lasciato convincere da post sui social che “insegnavano” a perdere peso in fretta finendo ben presto nel vortice dei Disturbi del comportamento alimentare (Dca). Negli ultimi anni i social hanno contribuito al loro aumento e, seppur con vari aggiornamenti delle proprie policy, non sono riusciti a limitare la diffusione di contenuti fuorvianti e la proliferazione di account esplicitamente pro-anoressia, facilmente raggiungibili su social media come TikTok, Instagram e Tumblr.
Il rischio di imbattersi in contenuti pro-anoressia sul web esiste da almeno 15 anni, dall'epoca d’oro dei cosiddetti blog pro-ana, che oggi hanno ceduto il posto a gruppi privati su Whatsapp e Telegram, più difficili da intercettare dalla polizia postale. L’ultimo tentativo di limitare il fenomeno risale al 2018, con la proposta di inserire nel codice penale il reato di incitazione all’anoressia e alla bulimia. Poi il nulla, con la problematica che, come mostrano i dati del ministero della Salute e dell’Istituto superiore di sanità, ha raggiunto dimensioni allarmanti.
In Italia tre milioni di ragazzi soffrono di disturbi alimentari. Tre sono le diagnosi più diffuse: il 36 per cento soffre di anoressia, il 18 per cento di bulimia, il 12 per cento del disturbo di binge eating (alimentazione incontrollata). Sono dati in costante aumento e le ultime rilevazioni segnalano una crescita del 40 per cento durante la pandemia. L’impennata era già stata registrata dall’Istituto superiore di sanità nei primi sei mesi del 2020, quando si censivano 230.458 nuovi casi contro i 163.547 di un anno prima.
A febbraio 2021 si è conclusa un’indagine nazionale volta a ottenere dati a livello epidemiologico su pazienti con disturbi dell’alimentazione e della nutrizione. Ne è emerso un aumento della patologia costante nel tempo. Nel 2019, si erano registrati 327.654 nuovi pazienti. Nel 2020 il carico assistenziale globale dei casi in trattamento corrispondeva a 2.398.749 pazienti. «Fino a poco tempo fa era molto complesso il lavoro di raccolta dei dati. E anche se adesso li abbiamo, c’è una parte di sommerso molto ampia, perché questa è anche una patologia in cui si fa difficoltà a chiedere aiuto», spiega la Laura Dalla Ragione, docente del corso sui Disturbi del comportamento alimentare al Campus biomedico di Roma, nonché direttrice del centro per la cura dei Dca di Todi.
Si è molto abbassata l’età in cui ci si ammala. Fino a sei anni fa l’età media dei pazienti ricoverati si aggirava intorno ai 25 anni, oggi il 30 per cento della popolazione ammalata ha meno di 14 anni, con frequenti esordi sotto i 10 anni.
Anche i dati del Registro nominativo cause di morte (Rencam) regionali meritano attenzione. Nel 2020 i decessi con diagnosi correlate ai disturbi dell’alimentazione e della nutrizione sono stati 3.158, con una variabilità più alta in Campania, Puglia, Sicilia e Sardegna, regioni dove sono scarse o assenti le strutture di cura. «Non abbiamo ancora disponibile il dato 2021, ma abbiamo ragione di credere che ci sia stato un aumento della mortalità, anche se, quando sento dire “è morta una persona per anoressia”, rispondo “no, è morta perché non è stata curata l’anoressia”. Questa è una malattia dalla quale si può guarire. Il problema è che le pazienti arrivano troppo tardi alle cure o non vengono curate affatto».
Ci sono sempre più variabili da tenere in conto: i Dca sono classificati nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (Dsm), approvato dall’American Psychiatric Association (Apa), nel quale non si tiene conto soltanto delle patologie più note, ma di tutte le patologie connesse all’alimentazione. Negli ultimi anni, infatti, si sono diffuse nuove malattie legate al rapporto con il cibo: la diabulimia, casi di pazienti diabetiche che usano l’insulina come metodo per dimagrire; la pregoressia, quando non si accetta di aumentare di peso in gravidanza; drunkoressia, l’uso di alcool alternato al digiuno; l’ortoressia, l’ossessione di mangiare sano; il disturbo evitante/restrittivo nell’assunzione di cibo, in cui si seleziona il cibo per colore o numero. «Non è un momento specifico e singolare a scatenare la malattia, ma un processo che porta l’individuo ad ammalarsi. Si inizia ad avere un’attenzione maggiore rispetto al proprio corpo, a quello che si mangia e si inizia a pensare costantemente e in modo ossessivo al cibo», spiega Miriam Billeri, psicoterapeuta del Centro per la cura dei Dca di Todi, secondo la quale i disturbi alimentari sono multifattoriali: «C’è un disagio psicologico più profondo che trova espressione attraverso il sintomo alimentare».
Per molto tempo i Dca sono stati studiati solo da un punto di vista fisico, non tenendo conto che in realtà la mente dei pazienti gioca un ruolo fondamentale. Non si tratta della volontà di dimagrire, punto di partenza apparente di chi decide di smettere di mangiare, ma di qualcosa di più profondo. Inoltre, sono sempre state considerate malattie esclusivamente femminili. Secondo i dati del ministero della Salute, invece, negli ultimi anni la quota di casi maschili è aumentata. Rappresentano ormai il 20 per cento del totale (nel 2018 erano il 4,1 per cento) e il 10 per cento dei casi nella fascia tra i 12 e 17 anni. «Non c’è differenza tra maschi e femmine: la sofferenza è uguale e molto forte», afferma Elisa Ragionato, nutrizionista Centro di Todi. «Quando emerge questo tipo di malessere, i fattori scatenanti sono molteplici: personali, culturali e sociali, ma anche ereditari. Viviamo in un contesto sociale altamente rischioso per questi disturbi», spiega ancora Miriam Billeri, secondo la quale i disturbi alimentari vengono incentivati dal prevalente «culto della magrezza» che caratterizza ancora, nonostante gli sforzi sulla cosiddetta body positivity, i nostri giorni. Non solo, «a livello psicopatologico ci sono anche dei tratti di personalità che portano ad avere dei Dca». Questo fattore, insieme a quello ereditario, e ancora in fase di studio. «E infine c’è il fattore traumatico, sperimentato nell’infanzia, che porta a sviluppare questi disturbi», spiega ancora Billeri.
«Gli adolescenti stanno su internet ore al giorno. Mentre però i maschi passano il tempo soprattutto a fare videogiochi o guardare video, le ragazze hanno aumentato il tempo su TikTok e Instagram, seguendo le fashion influencer e le fitness influencer», spiega Laura Dalla Ragione. Secondo i dati del ministero della Salute, l’80 per cento dei giovanissimi pazienti ammalati di un Dca ha visitato siti pro-anoressia, aderendovi e rendendo il disturbo quasi un modello di vita. «Se prima si parlava di siti o blog pro-ana e pro-mia, che erano più o meno facilmente individuabili, adesso i canali attraverso cui ragazzi e ragazze possono attingere a informazioni riguardo a metodi pericolosi per perdere peso si sono moltiplicati a dismisura», afferma ancora Dalla Ragione. Oggi, tuttavia, questi blog risultano tutti chiusi o inutilizzati, e non più indicizzati su Google. Per scovarli bisogna navigare nel deep web, che permette di trovare le pagine non indicizzate sui comuni motori di ricerca. L’ultimo anno di utilizzo libero dei blog pro-anoressia è il 2013. Da quel momento si è fatta strada l’idea che queste pagine online dovessero essere perseguite e chiuse, tralasciando il problema di fondo. Perché una ragazzina di 14 anni arriva a smettere di mangiare e a cercare conforto nella comunità virtuale?
Blog e forum possono diventare un porto sicuro per chi soffre di un Dca perché online ci si può sentire protetti, riconosciuti, accettati e non giudicati. Nei blog, ragazze e ragazzi aderiscono alla filosofia della dea Ana promuovendo e sostenendo uno stile di vita basato sulla liberazione definitiva dal cibo. Proprio come fosse al cospetto di un dio, infatti, chi entra nel blog e decide di aderirvi accetta di rispettare i 10 comandamenti di Ana, regole di vita da seguire in modo compulsivo e maniacale. Sono consigliati anche i trucchi per non sentire la fame, far restringere lo proprio stomaco ed evitare situazioni in cui si potrebbe essere potenzialmente costretti a mangiare.
Nei primi anni Duemila accedere a un blog pro-ana era molto semplice: bastava dichiarare di avere 18 anni e di essere consapevole di stare per entrare su un sito “rischioso” per leggere i comandamenti, le regole e gli stati d’animo condivisi da chi gestiva le pagine. Cos’è cambiato nel frattempo?
Dai blog ai social network
Per diversi anni la comunità pro-ana si è sentita minacciata. La prima esposizione mediatica, che metteva in risalto i contenuti più controversi dei blog su come diventare dei veri anoressici, ha fatto sì che gli Internet Service Provider (Isp), temendo la pubblicità negativa, chiudessero una serie di siti. Yahoo fu il primo Isp a farlo, nell’estate del 2001 e altri lo seguirono poco dopo. Gli utenti pro-ana hanno risposto creando nuovi siti con altri Isp, il più utilizzato è Blogger, una piattaforma dedicata alla creazione “in pochi semplici passaggi” di un blog personale. I nuovi blog, per evitare di essere chiusi, spesso si camuffavano evitando del tutto termini come “Ana” e “Anoressia”, o pubblicando importanti disclaimer sulle loro homepage, come «pro-ana è male, mangiare sano è bene».
Quando intorno al 2013 l’allarmismo per la diffusione dei blog pro-ana e il possibile impatto che questi potessero avere sulla vita dei minori è aumentato, gli utenti dei blog hanno pian piano smesso di utilizzare questo tipo di piattaforme, migrando verso altri ambienti virtuali, i Social network sites (Sns). I più utilizzati sono Whatsapp, Telegram, Facebook e Instagram, ma col passare del tempo e la creazione e diffusione di nuovi Sns la comunità pro-ana ha continuato a espandere i propri confini, approdando anche su TikTok e, infine, Kik e Discorder, queste ultime piattaforme meno conosciute e quindi meno controllate. La diffusione dei gruppi social pro-ana è iniziata in coincidenza con l’aumento dei controlli sui blog e i forum, e la loro conseguente chiusura. Già nel 2012, Instagram ha deciso di bannare una serie di hashtag, che facevano esplicito riferimento ai disturbi dell’alimentazione (#proana, #thinspo, #promia, #skinnygirl, #skinnyqueen). Il risultato ottenuto è stato però l’incremento del 30 per cento nella creazione di nuovi hashtag.
Secondo Laura Dalla Ragione questo fenomeno è dovuto «semplicemente al fatto che non è la censura il modo migliore per combattere questo fenomeno. Non bisogna dimenticare che si tratta di soggetti che nel bene o nel male, hanno bisogno di un luogo, soggetti che si sentono soli nel problema, non hanno nessuno con cui condividerlo. Diventa quindi prioritario utilizzare dei metodi meno drastici e punitivi e più funzionali».
Nonostante i principali social network abbiano introdotto criteri più stringenti nelle loro policy, il problema persiste. Gli utenti malati di Dca continuano a incontrarsi nel mondo virtuale grazie a semplici escamotage: magari inserendo un numero prima della parola Ana, oppure sostituendo una delle due “a” della parola con il numero 4; oppure ancora incastrando la parola Ana o Mia fra sei “x” (#xxxanaxxx). «Le piattaforme vogliono che gli utenti passino più tempo possibile sul loro sito. TikTok non punta più sulla parte sociale della sua piattaforma, connettendo persone che già si conoscono, ma punta sui contenuti, sul mostrare cose che possono interessare», spiega ancora Dalla Ragione. Non si tratta più solo di hashtag, gli algoritmi dei social sono in costante aggiornamento, cambiano e con essi anche le abitudini degli utenti, sempre più targetizzati e chiusi nella loro bolla.
«Gli algoritmi tendono a suggerire contenuti simili a quelli già visti, amplificando (non ampliando) gli interessi, ma anche convinzioni errate o stati d'animo». Dunque, se un utente segue una fitness influencer, il social proporrà contenuti simili. Lo stesso vale per le foto: se si lasciano likes sotto immagini di persone molto magre, l’algoritmo proporrà account di ragazze molto magre. Come se ne esce? «I social possono veicolare messaggi “pericolosi”, ma possono avere la stessa potenza nel diffondere messaggi positivi. Bisognerebbe promuovere azioni per insegnare ai ragazzi un utilizzo consapevole dei social e di educazione rispetto ai messaggi in essi veicolati, non solo nei confronti dei Dca», secondo Dalla Ragione.
In Italia manca una legge che regoli il fenomeno. Un testo in materia viene riproposto dal 2009 a ogni legislatura dalla senatrice di Forza Italia Maria Rizzotti, senza mai trovare il disco verde delle due camere. Il disegno di legge prevede l’introduzione del reato di istigazione ad anoressia e bulimia e il riconoscimento dei disturbi del comportamento alimentare come malattia sociale.
«Istigare qualcuno a non mangiare equivale a istigarlo al suicidio», ha spiegato Rizzotti lo scorso 5 aprile al Senato, augurandosi che sia la volta buona per il suo disegno di legge che, nello specifico, prevede la pena fino a un anno di carcere per chiunque istighi a pratiche di restrizione alimentare, con una sanzione pecuniaria dai 10mila ai 50mila euro con aggravanti se il reato è commesso a danno di un minore o di una persona priva della capacità di intendere e di volere. Obiezioni a questo progetto però non sono mancate.
Il “Coordinamento Nazionale Disturbi Alimentari” - un’organizzazione di volontariato nata nel novembre 2014 per volontà di alcune associazioni - ha proposto emendamenti e ulteriori riflessioni in «previsione di punibilità con sanzione penale nel caso l’autore del reato sia soggetto affetto da Dca». Così come ha espresso la sua contrarietà «alla conversione della condanna, sempre nel caso di persona affetta da Dca, in un trattamento sanitario obbligatorio».
La prassi da dover seguire nel momento in cui si intercetta un gruppo pro-anoressia è difatti molto complessa, spiega lCristina Bonucchi, psicologa della Polizia di stato. Bisogna tener conto della fragilità di queste persone e del ruolo che la giovane età gioca in dinamiche di istigazione. «Quello che abbiamo potuto osservare è che fra i membri del gruppo, a partire dal frasario che veniva utilizzato, nessuno voleva spingere altri a farsi del male, erano messaggi supportivi», racconta Bonucchi, spiegando che «trattandosi nella maggior parte dei casi di minori, non possiamo intervenire in maniera diretta, chiudendo la chat, ma soltanto segnalare alle famiglie che il numero di telefono del loro figlio compare in una di queste chat ritenute pericolose per la sua salute». Sulle segnalazioni ricevute dagli agenti della postale la dottoressa Bonucchi dice che «è difficile stimare un numero preciso. Non sono molte, questo è certo, perché rintracciare i gruppi privati creati attraverso i numeri telefonici è molto più complicato», spiega ancora.
Anche nel caso in cui si pensasse a una regolamentazione rispetto ai social network, agire sarebbe difficile: «Si tratta di algoritmi che non sono in grado di calcolare il rischio reale di determinati hashtag, e inoltre ciò che nel nostro paese viene considerato reato in altri paesi è tollerato perché non c’è una norma specifica e i servizi di internet rispondono alla legislazione in cui si trovano i server», afferma Bonucchi.
Il giusto canale per poter arginare tale fenomeno non è facile da trovare, vista anche la velocità con cui si evolve. In assenza di tutele spetterebbe agli utenti migliorare il loro grado di sicurezza, ma sotto una certa età, e per di più se si è fragili e inconsapevoli, diviene molto complicato e la legge italiana può farci poco. «Dobbiamo aumentare sempre di più la consapevolezza che è necessario sorvegliare, parlare, riflettere insieme sulle nuove tecnologie, perché questi ragazzi hanno bisogno di una guida», conclude Bonucchi.
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