Con i suoi articoli ha raccontato il sud, il malaffare e i poteri criminali. Il 23 novembre avrebbe compiuto 70 anni, da un anno aveva deciso di lavorare con Domani per essere libero di seguire le sue battaglie. Ecco il suo ultimo articolo su Mimmo Lucano, l’ex sindaco di Riace che ha sempre difeso
Si è spento oggi a Roma Enrico Fierro, è stato un cronista per tutta la vita, un giornalista che ha raccontato il sud, il malaffare e i poteri criminali. Il 23 novembre avrebbe compiuto 70 anni, da un anno aveva deciso di lavorare con Domani. A chi glielo chiedeva spiegava che aveva preso questa decisione per continuare ad essere libero, di scrivere di meridione, di migranti e seguire le sue battaglie per la giustizia: nel giornalismo ci ha creduto fino all’ultimo, anche quando il suo fisico ha cominciato a non sostenerlo più come avrebbe voluto.
In passato ha lavorato per il settimanale "Dossier Sud", per "La Voce della Campania" e per "L'Espresso", "Epoca" e "Avvenimenti". Poi l’arrivo all'Unità, come inviato speciale, e nel 2009 il passaggio al Fatto Quotidiano quando era diretto da Antonio Padellaro. Originario di Avellino, aveva raccontato i poteri criminali, dalla camorra che aveva gestito con la politica e l’imprenditoria il dopo terremoto in Campania fino a reportage e inchieste sulla mafia e la ‘ndrangheta e la camorra. Il 4 maggio 2013 ha ricevuto il premio Gerbera Gialla per il giornalismo, consegnatogli a Reggio Calabria dall'associazione antimafia Riferimenti.
Non ha mai nascosto il suo punto di vista, anche di fronte alle storie più controverse. Così nell’ultimo tratto della sua strada si è battuto per Mimmo Lucano, l’ex sindaco di Riace condannato per la gestione dei migranti: «Lucano ha rubato, ha usato i soldi destinati ai dannati del Mediterraneo per arricchirsi? La risposta è no. Inchiesta e processo non sono riusciti a dimostrare che l’uomo dell’ “utopia della normalità” si sia appropriato di un solo centesimo» scriveva su queste pagine il 18 maggio 2021. E ancora passando al setaccio tutti gli atti giudiziari diceva: «Il sospetto che l’inchiesta che ha portato all’arresto e all’esilio di Lucano, e che ha assestato un duro colpo al modello Riace, sia stata una inchiesta squisitamente “politica”, prende corpo e vigore».
Nella sua vita aveva amato le arti, il teatro soprattutto, e a “Mimmo” aveva dedicato anche un’opera teatrale. Riportiamo integralmente l’articolo in cui parlava di quest’esperienza insieme a Cosimo Damiano Damato, l’ultimo che ha scritto su Domani prima che la malattia se lo portasse via.
Mimmo Lucano, il sindaco di Riace contro il partito della paura
Dove non arriva la politica e spesso anche la giustizia a volte arrivano l’arte, la musica, la poesia, il cinema, il teatro. La condanna in primo grado a 13 anni e due mesi a Mimmo Lucano la commentiamo raccontando la sua storia umana e giudiziaria con un monologo teatrale civile, come ci ha insegnato Dario Fo: Riace Social Blues, il sogno di Mimmo Lucano.
Becky Moses
Avete mai pensato a quanto sia importante la carta di identità? Senza la carta di identità non sei nessuno. Niente. Non esisti.
La mia storia inizia da una carta di identità, su cui c’è scritto un nome. Becky Moses nata l’11 gennaio 1991 in Nigeria, morta il 27 gennaio 2018 in Italia. Nigeria, sangue, petrolio, ricchezza per pochi, fame per tutti. Nigeria. Africa. Africa nera, di dolore e fame. Africa sporca di sangue. Africa malata. Africa delle madri che vedono i propri figli morire di malaria o di diarrea. Africa derubata, sfruttata. Calpestata. Africa di Malasorte. Africa di Malamorte. Malavita. Malamore. Maldolore. Malalega. Malesangue. Malelingue. Malodore. Maldolore. Malamadre. Malafiglia. Africa dalle barche sfondate. Africa delle vite spezzate.
Becky la portò il mare. Lei era una Medea alla ricerca di una patria e una casa. Ma chi ero io? Io ero nessuno. Io ero uno zero. Il ministro della Paura lo aveva capito, lui sa tutto, tutto vede, tutto conosce. Tutto odia. Io sono uno zero. Mi chiamo Domenico. Ma nessuno mi chiama così. Alcuni mi dicono Mimmo. Altri Mimì. La verità è che io ero come lei, un naufrago senza terra, senza amore e senza speranze. Una casa avevo e una casa le ho dato. E lei rideva. Era felice Becky. Danzava e cucinava i colori dell’Africa.
Arrivarono gli editti del governo della paura: Becky era una “lungopermanente”, una “diniegata”. Significa che aveva perso tutto, non era più nessuno. Una scheggia d’Africa in balia del mare. Uno scarto umano. Doveva andar via. Per lei non c’era più casa, né gioia, né pace.
Scese per la collina e arrivò sulla strada. Ora il suo sorriso era morto. Becky cercava un tetto e lo trovò in un inferno di piscio, fango, crack e vodka per stonarsi e dimenticare l’Africa. Occupò una baracca. Di legno e plastica, amianto e materassi sporchi. Così fredda che per trovare un po’ di calore devi accendere un fuoco. E le fiamme camminano. Ma voi lo avete mai visto un corpo bruciato? Avete mai toccato gambe che non ci sono più, e braccia ridotte come rami spezzati. E pelle che vola nell’aria come fuliggine? Io sì. Io pure questo ho fatto e pure di questo sono colpevole. Un criminale.
E allora ho preso quel mucchio nero di cenere e fumo e l’ho portato a casa sua. A Riace, che è la casa di tutto il mondo, dove le carni martoriate trovano un po’ di sollievo. L’ho messa in alto Becky, accanto ai morti dalla pelle bianca che la vita se la sono guadagnata in Germania, in Svizzera, nelle nebbie dell’Italia di sopra, ai tempi in cui anche loro erano negri senza patria e senza amore. E allora alzate gli occhi verso il cielo e guardatela, la vedete? Sorride.
Onde nere
E poi ascoltate il mare? È sempre quello da migliaia d’anni. È il mare che ci porta tutti i dolori del mondo e i lamenti delle madri. Ci ha portato l’alfabeto, le spezie, la musica, le icone e i santi e le madonne nere che poi preghiamo nelle chiese. È il mare che ci porta corpi straziati e anime ferite. Scendono dalle navi avvolti da coperte color dell’oro. Ma il vostro cuore, la vostra pancia erano pieni di odio.
«Ruspa, ruspa, affoghiamoli in mare, chiudiamo i porti, prima gli italiani, ci rubano tutto, le case, le donne, i figli, il lavoro! Le Ong e le loro navi che salvano disgraziati nelle notti dalle onde alte e nere. Sono taxi del mare, complici dei trafficanti libici. Fermiamole. C’è una inchiesta, un giudice che sa e che parla». Ma cosa è successo? Come siamo diventati così? Quale morbo ha preso la nostra anima e l’ha trasformata in questo buco nero dove ristagnano gli istinti peggiori, gli egoismi, le malvagità. La disumanità.
Ma avete mai visto una barca che arriva dal mare? Il vostro sguardo si è mai posato sul volto di una bambina appena ragazza denudata, umiliata, torturata, stuprata? Lo sguardo denso di terrore di un bambino che avrà per sempre paura del buio, perché buie erano le notti passate in mare, con le onde di acqua e nafta sputate sulla faccia, col fiato che ti manca perché tua madre ti stringe forte per non farti morire.
Avete mai sentito l’odore acre di corpi che non si lavano da giorni, e quello marcio di carni nere di ferite mai curate? Vi hanno mai martellato la testa i racconti di madri che hanno visto scivolare nell’acqua i loro figli, di fratelli che non avevano un legno dove far aggrappare amate sorelle.
Così è iniziata la storia di Riace. Stavamo seduti al bar per l’ultima birra. Come sempre a parlare di una rivoluzione che non arrivava mai, la solita compagnia di amici e compagni di una vita, quelli che avevano fatto mille battaglie e le avevano perse tutte. Sempre. Regolarmente. Il maresciallo agitato ci disse che alla marina era arrivata una nave carica di disperati. Vedemmo un veliero, grande, enorme, illuminato dalla luna e gente, tanta gente. «66 maschi, 46 donne, 71 bambini».
Prima le donne e i bambini, poi gli anziani, infine i più giovani. Scendevano dalla nave in ordine di debolezza e di bisogno. Sulla parte più alta della nave c’era un giovane. La camicia stracciata, la barba nera e lunga. Per ultimo, quando tutti scesero e tutti si salvarono, come un capitano d’altri tempi, una sorta di Ulisse, abbandonò il veliero e toccò terra. «Chi siete?», chiese il maresciallo. «Siamo un popolo in viaggio per un sogno di liberazione e di pace». «Come siete arrivati qui?», chiese il sindaco. «Ci ha portato il vento. Sì è stato il vento», rispose il giovane capitano coraggioso.
Finalmente la vita
Dal paese erano venute le donne e avevano coperte, bottiglie d’acqua, latte per i bambini, un pezzo di pane. 66 uomini, 46 donne, 71 bambini…e devono dormire. Il vecchio maestro, che tutti chiamavano il poeta, disse: «Andate nel cuore del paese, camminate per i vicoli muti, senza più voci, né di vecchi, né di bambini e troverete porte e finestre sbarrate. Case vuote da anni, secche come vene senza sangue. Che pure quello ci hanno tolto e ora scorre per il mondo… Se ne sono andati via tutti alla ricerca di un pezzo di pane, proprio come questi viaggiatori di sfortuna che ora sono venuti qui da noi a chiederci di spezzare il pane che non abbiamo. E noi lo spezzeremo.
Dieci case. Aprimmo porte e finestre. E nelle case finalmente entrò l’aria. Nei vicoli entrò la vita. Questi viaggiatori a Riace avevano trovato i partigiani dell’accoglienza. Ma a voi questo non stava bene. Vi spaventava l’idea che in questo piccolo buco nero di quel grandissimo pozzo oscuro che è la Calabria si affermasse l’utopia della fratellanza, solidarietà, amicizia. Troppo pericoloso, rivoluzionario, eversivo rispetto al Vangelo nero del grande partito della paura.
E allora avete suonato la vostra grancassa: «Ma quale villaggio globale, finalmente sono arrivati i gendarmi e hanno scoperto il marcio. Hanno letto carte, hanno fatto i conti, interrogato persone. Voi avete violato la legge. È inutile che fate venire registi, attori e teatranti, e artisti, sognatori falliti e illusi come voi. La verità è che voi avete speculato. Avete preso le case. E gli appalti? Avete messo tre asinelli a raccogliere la monnezza per il paese. Leggete qua: Abbiamo un’idea fondata che siano stati commessi reati ben più gravi, tra cui la sottrazione di somme che lo stato aveva erogato per quel progetto, almeno due milioni. Quei soldi non sono stati rendicontati, sono spariti. Riteniamo che siano stati utilizzati per fini personali. Ma a volte il tornaconto personale può essere anche politico, d’immagine».
E avete mosso la Legge, la vostra Legge. Quella che ha rinchiuso in un mare di burocrazia e parole incomprensibili il senso dell’umanità. Siete riusciti nel miracolo di trasformare i poveri in nemici di altri poveri. Siete i padroni di questo paese, le bestie che governeranno nei secoli a venire. «Caro fratello sindaco, le esprimo la mia ammirazione e gratitudine per il suo operato intelligente e coraggioso. Le porte della mia casa saranno sempre aperte per lei […] Mentre chiedo al Signore di non abbandonarla mai, soprattutto in questo momento difficile, la accompagno con riconoscenza e affetto. Non si dimentichi di pregare per me o, se non prega, le chiedo che mi pensi e mi mandi buona onda», firmato Papa Francesco.
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