La “fine” della pandemia forse non arriverà mai, ma i vaccini rappresentano senz’altro la nostra possibilità di convivere meglio possibile col virus in questa fase di transizione. E poi il tracciamento dei focolai ci permetterà di evitare nuove ondate di contagi
- La soglia dell’immunità di gregge dipende in primo luogo dal numero di riproduzione del virus, R0. Per il SARS-CoV-2, le prime stime di R0 erano intorno a 3 e la soglia dell’immunità intorno al 60-70 per cento.
- Per raggiungere l’immunità di gregge dovremmo vaccinare tra il 60 per cento e l’80 per cento della popolazione con un vaccino efficace al 100 per cento nell’inibire la trasmissione del virus. Qui c’è il primo problema.
- Ma i vaccini che abbiamo a disposizione sono altamente efficaci nell’evitare le infezioni sintomatiche, ma gli studi clinici non hanno stimato il loro effetto sulle infezioni asintomatiche e sulla contagiosità.
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People wearing face masks line up to cast their early votes for the upcoming the Seoul mayoral by-election at a polling station in Seoul, South Korea, Friday, April 2, 2021. The early voting for the April 7 Seoul and Busan mayoral by-election will be held for two-days on April 2-3. (AP Photo/Ahn Young-joon)
In questi giorni sentiamo ripetere che entro agosto o settembre potremmo raggiungere l’immunità di gregge. Il ritmo della campagna vaccinale, ci dicono, aumenterà a tal punto nelle prossime settimane da poter sperare di vaccinare l’80 per cento degli italiani entro la fine dell’estate.
Eppure la scorsa settimana la rivista scientifica Nature, una delle più prestigiose al mondo, ha titolato “Cinque ragioni per cui l’immunità di gregge è probabilmente impossibile da raggiungere”.
L’immunità di gregge si ottiene quando il numero di persone contagiate in media da un infetto è inferiore o uguale a uno. In questa condizione, il virus continua a circolare, ma il numero di persone suscettibili all’infezione non è sufficiente a far decollare di nuovo l’epidemia.
Quando arriva il gregge
La soglia dell’immunità di gregge dipende in primo luogo dal numero di riproduzione del virus, R0. Per il SARS-CoV-2, le prime stime di R0 erano intorno a 3 e la soglia dell’immunità intorno al 60-70 per cento. Ma R0 è stato poi rivisto al rialzo e con lui anche la soglia dell’immunità, che secondo alcuni esperti potrebbe superare l'80 per cento.
Questa è la percentuale della popolazione che deve essere immune al virus, o perché contagiata in precedenza o perché vaccinata. Trascurando per ora la parte di immunità naturale, per raggiungere l’immunità di gregge dovremmo vaccinare tra il 60 per cento e l’80 per cento della popolazione con un vaccino efficace al 100 per cento nell’inibire la trasmissione del virus. Qui c’è il primo problema.
I vaccini che abbiamo a disposizione sono altamente efficaci nell’evitare le infezioni sintomatiche, ma gli studi clinici non hanno stimato il loro effetto sulle infezioni asintomatiche e sulla contagiosità.
Qualche indicazione arriva dai primi studi sul campo. L’ultimo è stato condotto dai CDC statunitensi su quasi 4000 sanitari e ha mostrato che i vaccini a mRNA Pfizer e Moderna hanno un’efficacia del 90 per cento nel prevenire l’infezione, sia sintomatica che asintomatica, dopo 14 giorni dalla seconda dose. Una persona che non si infetta non può trasmettere il virus.
Inoltre, sembrerebbe che nei rari casi di infezione tra persone che hanno ricevuto il vaccino Pfizer, la carica virale sia da 3 a 5 volte inferiore a quella dei non vaccinati. Questa è la conclusione di uno studio condotto in Israele e pubblicato pochi giorni fa su Nature Medicine. La carica virale è una buona approssimazione della contagiosità: minore carica virale vuol dire minore capacità di contagiare.
Anche se questi ottimi risultati fossero confermati e conclusioni simili valessero per i vaccini a vettore virale, come AstraZeneca o Johnson&Johnson, dovremmo comunque aumentare di circa il 10 per cento la soglia dell’immunità, che nella stima più ottimistica cadrebbe fra il 70 per cento e l’80 per cento.
Il caso italiano
Occorre però ricordare che per ora i vaccini non sono autorizzati per i minori di 18 anni, che in Italia rappresentano circa il 16 per cento della popolazione. Quindi per vaccinare il 70-80 per cento degli italiani dovremmo vaccinare l’80-90 per cento dei maggiorenni.
Una percentuale non facile da raggiungere, anche al netto delle difficoltà di approvvigionamento e distribuzione. Un sondaggio di Ipsos Mori, infatti, ha mostrato che, sebbene in aumento, la percentuale di adulti fra i 18 e 74 anni che in Italia accetterebbero immediatamente un vaccino è dell’85 per cento.
Si potrebbe abbassare la soglia dell’immunità di gregge mantenendo alcune regole di distanziamento sociale: scenderebbe così il numero di riproduzione del contagio e anche la soglia dell’immunità. Questa è una delle possibilità più concrete: sfruttare i vaccini non per estinguere l’epidemia ma per rallentarla molto in modo da poter gestire, con tracciamento e isolamento, i focolai.
Non dobbiamo poi dimenticare che la soglia dell’immunità di gregge ha anche una dimensione geografica, sia locale che globale. L’adesione e l’esitazione vaccinale si concentrano in gruppi e comunità. Nel 2019 la comunità ebrea ortodossa di Williamsburg a Brooklyn venne colpita da un’epidemia di morbillo per via della resistenza dei genitori a vaccinare i loro bambini. Lo stesso fenomeno si è verificato in Europa.
A livello globale ci sono poi enormi disuguaglianze. Israele, che ha vaccinato completamente quasi il 50 per cento della sua popolazione, è circondato da paesi come Siria, Giordania e Libano che sono molto più indietro. Alcuni paesi africani stanno cominciando solo adesso le loro campagne di vaccinazione.
L’immunità che svanisce
A questi ostacoli si aggiunge il fatto che la cosiddetta immunità sterilizzante, quella che impedisce di trasmettere il virus e che pare che i vaccini conferiscano, tende a svanire nel tempo. La biologa Jennie Lavine della Emory University di Atlanta ha paragonato la situazione al tentativo di evitare la diffusione di un incendio bagnando i tronchi degli alberi di una foresta. Prima di riuscire a bagnarne un numero sufficiente, i primi si sarebbero già asciugati.
Sembra infatti che gli anticorpi specifici verso SARS-CoV-2 diminuiscano piuttosto rapidamente allontanandosi dall’infezione, come osservato in uno studio pubblicato a fine ottobre da Imperial College. Tuttavia, questo non vorrebbe dire che torneremmo a essere vulnerabili come prima.
Gli anticorpi, infatti, sono solo una parte della risposta immunitaria. Dopo l’infezione vengono prodotte anche delle cellule, linfociti B e T, in grado di ricordare al nostro sistema immunitario di produrre gli anticorpi se dovessimo incontrare di nuovo il virus e di eliminare le cellule che eventualmente questo riuscisse a infettare. Quest’altra parte della risposta immunitaria potrebbe durare più a lungo e far sì che le reinfezioni si risolvano con decorsi più lievi.
È quello che suggerisce una ricerca realizzata a novembre al La Jolla Institute of Immunology in California, che ha mostrato che nel complesso la risposta immunitaria verso il SARS-CoV-2 non accenna a decrescere nei primi sei mesi dopo l’infezione. Estrapolando questo dato, gli esperti prevedono potrebbe durare alcuni anni. Potremmo dunque reinfettarci prima di 2 o 3 anni dalla prima volta, ma la malattia non sarebbe grave.
Il Covid endemico
Questo insieme di osservazioni, pur essendo ancora molto incerte, lascerebbe intuire che il SARS-CoV-2 somigli ai quattro coronavirus endemici del raffreddore. Se così fosse dovremmo rinunciare all’idea di una vera e propria “fine” della pandemia. Piuttosto, vedremmo trasformarsi SARS-CoV-2 da virus pandemico a virus endemico, che mantiene cioè un’incidenza costante nella popolazione. Nel medio termine, la qualità delle nostre vite dipenderebbe dalla natura di questa transizione.
Su Science, il gruppo coordinato da Lavine ha provato a tracciare gli scenari possibili. A seconda della velocità di attenuazione dell’immunità e della presenza o meno di regole di distanziamento, potremmo impiegare da due a venti anni a raggiungere la fase endemica in cui la mortalità scenderebbe sotto quella dell’influenza stagionale.
Il tasso di mortalità si abbasserebbe perché la circolazione del virus si sposterebbe gradualmente verso fasce di età più basse su cui è meno aggressivo, ammettendo che non perda questa caratteristica evolvendo geneticamente. L’immunità sviluppata da piccoli vaccinandosi proteggerebbe dalle forme gravi durante la vita adulta. Nel frattempo, gli adulti dovrebbero essere protetti con i vaccini, eventualmente con richiami ripetuti periodicamente, per supplire al fatto che non sono stati esposti al SARS-CoV-2 da bambini.
Le nostre armi
La disponibilità di vaccini estremamente efficaci nell’evitare le forme gravi della malattia anche negli anziani, la categoria più a rischio di ricovero e morte, è ciò che davvero promette di cambiare il volto della crisi nel breve termine. Nel Regno Unito, la scelta di vaccinare prioritariamente gli anziani e somministrare a quante più persone possibile la prima dose, anche a costo di ritardare i richiami, ha fatto crollare il numero di vittime e ricoveri nelle ultime settimane.
L’evoluzione del genoma potrebbe porre delle incognite aggiuntive. Il SARS-CoV-2 sembra evolvere più lentamente rispetto ad altri virus a RNA, come quello dell’influenza stagionale. Di recente però sono emerse una serie di varianti più contagiose e, sembra, più letali, ma non è ancora chiaro se siano in grado di eludere la risposta immunitaria naturale o da vaccino.
In un commento su Nature Reviews Immunology, gli epidemiologi Sarah Cobey e Marc Lipsitch, hanno sottolineato come i vaccini, anche se solo parzialmente efficaci, possano comunque aiutare a rallentare la comparsa di nuove varianti e il loro adattamento.
La “fine” forse non ci sarà, ma i vaccini rappresentano senz’altro la nostra possibilità di convivere meglio possibile col virus in questa fase di transizione.
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