- La circolare del Viminale in materia di verifica delle certificazioni verdi COVID-19 sembra complicare la disciplina dei controlli, anziché chiarirla.
- Le verifiche sono “discrezionali”, ma si rendono “necessarie” in «casi di abuso o elusione delle norme, come, ad esempio, quando appaia manifesta l'incongruenza con i dati anagrafici contenuti nella certificazione». Questo passaggio pare prevedere un obbligo di controllo, che però nel Dpcm – fonte superiore - non è previsto.
- Gli esercenti che vorranno svolgere verifiche più scrupolose potranno trovarsi a convincere gli avventori che la richiesta di documenti di identità è autorizzata pure se l’incongruenza non sussiste.
Nella serata del 10 agosto, il ministero dell’Interno ha emanato una circolare in materia di verifica delle certificazioni verdi Covid-19. La circolare, che ha inteso chiarire le disposizioni previste da provvedimenti precedenti, presenta alcune criticità che è bene evidenziare.
Un decreto-legge (n. 52) dell’aprile scorso aveva previsto la certificazione verde, inizialmente per spostarsi tra regioni con “colore” diverso, poi per partecipare a matrimoni e accedere a residenze per anziani; un decreto-legge di fine luglio (n. 105) ha esteso l’uso del “green pass”, dal 6 agosto, a una serie di altri luoghi e attività (cinema, teatri, ristoranti, palestre, musei ecc.); un decreto-legge successivo (n. 111) ha reso obbligatorio il pass dal 1° settembre anche per il personale scolastico e universitario, per gli studenti universitari e per i fruitori dei trasporti a lunga percorrenza.
Il primo decreto-legge ha demandato a un decreto del presidente del Consiglio (Dpcm) – tra le altre cose - l’indicazione dei soggetti deputati al controllo delle certificazioni e le modalità dello stesso. Il Dpcm, emanato il 17 giugno scorso, ha disciplinato, oltre a profili diversi, l’accertamento dei “green pass” da parte di “verificatori” mediante la lettura del QR code attraverso l’App VerificaC19.
Oltre ai pubblici ufficiali, le verifiche sono svolte da esercenti pubblici, gestori di strutture sanitarie ecc. e da soggetti formalmente delegati (art. 13, c. 2).
Il Dpcm ha pure previsto che i controllori possano chiedere un documento di identità all’intestatario della certificazione, per riscontrarne la titolarità (art. 13, c. 4). Le norme del Dpcm sugli accertamenti sono, quindi, molto chiare.
Le polemiche, l’intervista di Lamorgese, il Garante Privacy
Con l’estensione dell’obbligo del pass a una serie di luoghi e attività, diverse categorie di esercenti si sono lamentati riguardo alla previsione della possibilità di chiedere un documento di identità, di cui al citato Dpcm. E così, il 10 agosto scorso, la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, forse per sedare le polemiche, ha dichiarato che «la regola è che venga richiesto il Green pass senza il documento di identità, i ristoratori non devono fare i poliziotti», preannunciando l’emanazione di una circolare esplicativa.
L’affermazione della ministra ha lasciato perplessi. Da un lato, perché in contrasto con il Dpcm citato, che autorizza espressamente la verifica dell’identità del titolare del pass.
Dall’altro lato, perché in diverse ipotesi la legge consente ai pubblici esercenti il controllo dei documenti, senza per ciò trasformarli in “poliziotti”, pubblici ufficiali. Basti pensare al divieto di somministrazione di bevande alcoliche a minori (art. 689 c.p.), a fronte del quale è prevista la verifica dell’età del cliente (l. n. 189/2012).
La possibilità di richiesta dei documenti di identità è stata ribadita dal Garante Privacy nella risposta al quesito della Regione Piemonte circa il potere di accertamento dell’identità del titolare della certificazione verde: il decreto-legge sopra citato e il Dpcm attuativo legittimano i controlli mediante esibizione di un documento. Sarebbe strano l’opposto: senza la previsione della possibilità di tali controlli, basterebbe un QR code valido, tratto dal cellulare di chi ne sia effettivamente titolare, per consentire l’accesso di chiunque altro lo esibisca nei luoghi ove la certificazione sia richiesta.
La circolare del Viminale
Nella serata del 10 agosto è stata pubblicata la preannunciata circolare del Viminale. Essa non solo non è conforme a quanto detto dalla ministra nell’intervista, ma - nel tentativo di limitare i controlli dei pubblici esercenti - anziché chiarire sembra complicare le regole del Dpcm, andando oltre lo stesso.
La circolare ribadisce una prima fase di controllo, «un vero e proprio obbligo» di accertamento della certificazione verde, e una seconda fase eventuale, consistente nella richiesta di «esibizione di un documento d'identità» da parte dei “verificatori”. Fin qui la circolare conferma il contenuto del Dpcm.
Poco oltre iniziano le complicazioni: la verifica dell'identità del titolare della certificazione verde «ha natura discrezionale», ma «si renderà comunque necessaria nei casi di abuso o elusione delle norme, come, ad esempio, quando appaia manifesta l'incongruenza con i dati anagrafici contenuti nella certificazione».
A parte il fatto che le categorie di “abuso o elusione delle norme” potrebbero risultare non immediatamente chiare a tutti, il dato più rilevante è che, con l’espressione «si renderà necessaria», il Viminale sembra introdurre una sorta di obbligo di verifica che però nel Dpcm, fonte di rango superiore, non è previsto.
Ciò è confermato da quanto si dispone qualche riga dopo: in caso di «non corrispondenza fra il possessore della certificazione verde e l'intestatario della medesima, la sanzione (…) risulterà applicabile nei confronti del solo avventore», salvo «palesi responsabilità anche a carico dell'esercente». L
e “palesi responsabilità” - altra faccia della medaglia del mancato controllo dell’identità in caso di “manifesta incongruenza” - paiono confermare l’obbligo indicato, rappresentando la conseguenza della sua violazione.
La circolare potrà comportare alcuni effetti derivanti dall’intreccio tra il Dpcm e la circolare stessa. Gli esercenti che non volevano essere impegnati in controlli di documenti saranno legittimati a non effettuarli, salvo i casi esemplificati di palese incongruenza di genere o di età rilevata nella verifica dei dati del “green pass”. Mentre gli esercenti che vorranno svolgerli più scrupolosamente, per accertare l’effettiva titolarità della certificazione, potranno trovarsi a dover convincere gli avventori che la richiesta di documenti di identità è autorizzata anche in casi diversi da quelli indicati, cioè pure se l’incongruenza non sussiste. Insomma, un pasticcio che si poteva evitare. Serviva proprio la nuova circolare?
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