Il percorso di una persona con un problema acuto di salute svela limiti e potenziale del nostro sistema sanitario. Ci sono i ticket da pagare e le difficoltà della medicina territoriale, ma anche l’efficienza del pronto soccorso
Un piccolo problema di salute di un giovane membro della famiglia mi ha proiettato per qualche giorno nella posizione di utente (indiretto) del Servizio sanitario nazionale. Credo che il breve resoconto di questa esperienza renda conto più di tante parole dei grandi meriti e degli altrettanto grandi limiti della sanità pubblica nel nostro paese.
Parliamo di un giovane uomo vigoroso che fa un lavoro fisicamente faticoso a partita Iva. Ogni giorno di lavoro perso sono impegni che saltano e soldi che non entrano in casa. Smania per riprendere il più presto possibile. Da due mesi ha una tosse stizzosa, ma passerà, si dice, e nessuno se ne preoccupa. Poi di colpo una tonsillite delle più classiche.
Febbre a 40, placche in gola, difficoltà a deglutire, linfonodi ingrossati. Grazie a un parente medico, inizia subito a prendere gli antibiotici, ma dopo sei giorni la situazione non è minimamente cambiata, la febbre resta altissima e il giovanotto è uno straccio.
La medicina territoriale
Dopo diversi tentativi riesco a mettermi in contatto telefonico con il curante. In via di amicizia riuscirà a vederlo fra tre giorni, intanto suggerisce una serie di esami e una radiografia del torace. Passo a ritirare le ricette e mi do da fare per gli appuntamenti.
Esami il mattino dopo. RX del torace non prima di sei giorni. Il mattino dopo trascino il giovane in ambulatorio per il prelievo, paghiamo un ticket di 36 euro. Ci dicono che ci sono degli esami “un po’ particolari” per cui i risultati non saranno disponibili prima di cinque giorni. E adesso? Ci guardiamo in faccia. Ci vergogniamo un po’ ad andare in pronto soccorso per una tonsillite, ma a estremi mali…
Un giro al pronto soccorso
Eccoci dunque al triage del grande ospedale cittadino dove ho avuto dei trascorsi lavorativi. Uno dei pochi pronto soccorso che tengono ancora botta. Ci accoglie un’infermiera sulla quarantina. «Pensi», mi dice, «ormai sono una delle più anziane».
I colleghi sopra i cinquanta se ne sono andati quasi tutti. Troppa fatica qui, e li capisco. I giovani ci sono e sono volenterosi, ma per accumulare quel bagaglio di competenze e di conoscenze ci metteranno anni, sempre che non se ne vadano prima. Ci assegna un codice verde e ci manda nell’ambulatorio “codici minori”. Quelli che, secondo molti, in ospedale non dovrebbero neppure mettere piede.
Giusto, ma allora dove? Nell’atrio dell’ambulatorio sono sedute una ventina di persone. Alcune attendono da ore. A un certo punto una ragazza dice che si sente svenire e viene fatta passare avanti. Dopo un quarto d’ora è un’anziana signora a sentirsi svenire ed essere accolta e distesa su una barella.
Al terzo potenziale svenimento, un omone grande e grosso che fino a quel momento passeggiava avanti e indietro parlando al cellulare, l’infermiere è meno gentile. Si sfiora la rissa, ma grazie alla professionalità dell’operatore la situazione torna presto sotto controllo. Finalmente tocca a noi.
Dopo un’attenta visita vengono prelevati nuovamente gli esami, viene richiesta una radiografia del torace e viene fatta seduta stante un’ecografia di torace e addome. Avremo i risultati nel giro di un’ora. Per “gli esami particolari” che fuori avremmo ricevuto dopo cinque giorni, bisognerà attendere solo fino al primo pomeriggio.
Quattro chiacchiere
Lascio il mio giovane parente seduto nell’atrio e faccio un giro in cerca di vecchi colleghi.
Incontro Giorgio che è ancora lì dopo il turno di notte. «Non me la sono sentito di andare via», dice. «Abbiamo passato in consegna 48 pazienti ai colleghi che fanno mattina. Se non ne concludo almeno qualcuno prima di andarmene, non me la perdòno. Non capisco perché, ma, anche se gli accessi non sono aumentati di tanto, qui c’è sempre più gente».
Si avvicina un caposala. «È vero», dice. Nell’ultimo anno il tempo di permanenza medio in pronto soccorso si è allungato di un’ora. Circa trecento ore di assistenza in più al giorno, novemila al mese, centomila in un anno. Naturalmente a risorse umane immodificate. Chiedo se analizzando i dati non si riesca a capire qualcosa di più. Ci sono più malati anziani? Più gravi? Attendono più a lungo un posto letto? O sono i medici a chiedere più esami, o gli specialisti a tardare per le loro consulenze? Sono cambiate le patologie? «Magari potessimo», risponde, «ma con il nuovo sistema informatico non riusciamo più ad analizzare niente».
«Perché cambiarlo?», chiedo, ricordandomi che quello di prima andava come un olio. «Sì», mi risponde, «funzionava bene, ma non era più allineato con i nuovi requisiti regionali». Alza gli occhi al cielo. Ha vinto la gara un’azienda siciliana che ha sede nella città natale di un importante politico nazionale. «Un caso», dico io. «Certo, un caso», dice lui, «infatti adesso in regione hanno capito e ce lo cambieranno». Almeno sei mesi per metterlo in pista, poi bisognerà formare tutti. Tempo e soldi buttati via.
Quanto costa l’eccellenza?
Con la coda dell’occhio controllo la sala di emergenza. Le vecchie abitudini stentano a morire. Nel giro di mezz’ora sono arrivati quattro pazienti in codice rosso. Due incidenti gravi, un infarto, una donna in coma. In quei 60 metri quadrati, oltre a medici e infermieri che lavorano velocemente e ordinatamente, si muovono barellieri, poliziotti, tecnici di radiologia.
A pochi metri di distanza, sull’unico letto di emergenza rimasto libero, tre infermieri si sono fermati a fine turno per ripassare il protocollo di approccio al trauma maggiore usando un manichino. Una sanità che funziona, penso. Un’eccellenza che non è fatta solo di nuovi farmaci e di alta tecnologia, ma di organizzazione, di professionalità e di dedizione degli operatori.
Ormai mezzogiorno è passato da un po’ e accompagno un medico più anziano in mensa. Fra tre anni potrà andare in pensione e l’idea che il governo abbia tagliato quello che riceveranno medici e insegnanti lo fa inviperire. «Negli ultimi vent’anni abbiamo avuto aumenti ridicoli», dice, «e abbiamo perso potere d’acquisto. Adesso ci tagliano anche la pensione! Lo sai», aggiunge, «che ci hanno abbassato tutti gli incentivi di risultato?» «Quelli che dovevano premiare il merito?», chiedo.
«Sì, proprio quelli», riportati al minimo per decisioni superiori. Poi, davanti al distributore del caffè aggiunge: «Per fortuna che ho cominciato a fare la libera professione come endocrinologo. Una vecchia specialità che non avevo mai usato. Adesso lavoro in intramoenia un pomeriggio alla settimana. Vedo cinque pazienti a 150 euro l’uno. Un terzo lo prende l’ospedale, trentacinque euro vanno in tasse e a me ne restano sessantacinque. Fanno quasi millecinquecento euro al mese con poca fatica. E pensare che, se ci va bene, con il prossimo contratto ci daranno duecento euro lordi!».
Fine della storia
Finalmente i risultati degli accertamenti del giovane familiare si sono conclusi. La diagnosi è fatta. Si tratta di un virus un po’ particolare che, mi dicono i colleghi, stanno vedendo più spesso del solito da un po’ di tempo a questa parte e con quadri clinici più gravi. Ricordo come è cominciato il Covid e incrocio le dita. Viene raggiunto al telefono l’infettivologo che dà utili consigli.
«Il ticket?», chiedo. No, è un codice verde e non c’è niente da pagare. Torniamo a casa più sereni. Sappiamo cosa fare e più o meno quanto tempo ci vorrà perché le cose migliorino.
A questo punto è pleonastico chiedersi perché la gente continui a rivolgersi ai pronto soccorso nonostante l’affollamento e i tempi di attesa. Puoi fare tutti gli esami necessari nello stesso luogo e nello stesso tempo, non devi buttare via ore o giorni per prenotarli, per attendere il momento dell’appuntamento, per ricevere i risultati. In genere uscirai con una risposta ai tuoi problemi senza pagare, o pagando meno di quanto ti sarebbe costato farti seguire negli ambulatori del Servizio sanitario nazionale o del privato.
C’è ancora un enorme lavoro da fare perché la medicina del territorio possa raggiungere la stessa efficienza di un pronto soccorso ben funzionante, e forse non è neppure corretto porle questo obiettivo. Ma velocità ed efficienza sono le cose che i cittadini di uno stato moderno si attendono, e fin quando non succederà non ci sarà soluzione all’affollamento dei servizi di urgenza ospedalieri.
In sei ore ho visto o sentito raccontare esempi di soldi usati bene e di soldi gettati al vento. Una volta di più mi è apparso chiaro che immaginare una medicina universalistica, efficiente e gratuita per tutti, è un’utopia. Oggi si finge che la nostra sanità lo sia, ma quasi un quarto della spesa sanitaria italiana grava già, tra ticket ed esborsi diretti, sulle tasche dei cittadini. In futuro bisognerà lavorare perché chi non può spendere venga tutelato, mentre chi può farlo riceva una parte dei servizi sanitari attraverso canali di previdenza integrativi.
Formiamo eccellenti professionisti, ma rischiamo di perderli se non troveremo velocemente il modo di garantire loro una buona qualità di lavoro e un giusto compenso. Che sia l’attività libero-professionale a integrare le entrate che lo stipendio pubblico non è in grado di offrire non è probabilmente la migliore delle soluzioni, ma sarebbe senz’altro peggio restare senza medici perché nessuno vuole più fare questo mestiere.
Non siamo i soli a livello internazionale a dover affrontare questi problemi. Sarebbe allora bene che la smettessimo di crogiolarci nella convinzione di avere uno dei migliori sistemi sanitari del mondo e che incominciassimo a guardare con più attenzione, più umiltà e meno pregiudizi a quello che tanti altri paesi stanno provando a fare.
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