Denunciare una violenza non serve a niente se poi manca il sostegno delle istituzioni. Dopo un anno e mezzo di attesa e quattro denunce Elisa Bruzzese ha deciso di usare Instagram per fare un appello pubblico chiedendone la condivisione: «Subisco minacce di morte dal mio ex fidanzato da mesi ormai». E nel giro di qualche ora la sua storia è rimbalzata sugli account di centinaia di persone.

Elisa Bruzzese (su Instagram Elisa Aiello), 26 anni, ha vissuto una relazione violenta durata sei mesi, da novembre 2022 ad aprile 2023.

«Si è finto una persona che non è, mi ha chiusa in casa, togliendomi il cellulare, me lo dava solo per sentire mia mamma. Ho subito episodi di violenza e maltrattamenti, morsi in faccia, pugni», racconta a Domani. Un giorno, grazie all’aiuto del fratello è riuscita a scappare e in quella casa non ci è più tornata. È andata direttamente a denunciare ma, dopo essersi rivolta alle forze dell’ordine, non è successo niente. «Avevano perso la mia denuncia, per fortuna dopo sei mesi sono riuscita a farla nuovamente uscire perché avevo la mia copia. In quel momento hanno attivato il codice rosso».

A febbraio di quest’anno l’ex fidanzato ha iniziato a minacciarla e insultarla con video sui social, a fare appostamenti sotto casa. «Sono andata nuovamente a denunciare il 22 maggio per minacce e atti persecutori, è intervenuto il centro antiviolenza ma non è servito a molto». Nel frattempo, spiega la vittima, nei confronti dell’ex compagno non era stato emesso alcun ordine restrittivo.

Ha denunciato quattro volte, l’ultima il 26 luglio, si è affidata a un cav, a un legale, poi a un altro (il primo non si era dimostrato competente in materia di violenza contro le donne) e, dopo che tutti questi tentativi non hanno cambiato la situazione, ha deciso di rivolgersi ai social. «Poi si chiedono perché le vittime non denunciano. Stai lì quattro o cinque ore a parlare per sporgere denuncia, ma lui rimane libero. Sa il mio domicilio, ha minacciato sia me che mia mamma, non è ammissibile vivere così».

Il codice rosso

Il codice rosso è definito sul sito della Camera come «il provvedimento che più ha inciso nel contrasto alla violenza di genere», rafforzando «le tutele processuali delle vittime di reati violenti e aumentando le pene previste per i reati che più frequentemente sono commessi contro le vittime di genere femminile (maltrattamenti, atti persecutori, violenza sessuale)». Ma secondo Elisa Bruzzese attivarlo non ha modificato la situazione: «Non saprei dire cosa cambia con il codice rosso».

L’unico cambiamento che ha visto rispetto ai mesi precedenti è la chiusura del profilo Tiktok dell’ex fidanzato, quello su cui aveva caricato i video con le minacce. Ma Bruzzese ha salvato tutti quei video e li ha pubblicati sul suo profilo Instagram così che siano visibili a chiunque. «Ti aspetterò per tutta la vita fin quando non ti faccio a pezzi. Non dimenticarti mai che questa promessa ti deve arrivare dritta al cuore prima di chiudere gli occhi ti devo mangiare il cuore e lo devo masticare. Io vengo solo tu corazzati perché sarà qualcosa che ne parleranno tutti i giornali e televisioni. Morirai piano piano come una serpe». O ancora «ti taglio in due con una motosega». L’ex compagno recentemente ha aperto un nuovo profilo social, ma senza caricare video contenenti minacce come queste.

Nonostante l’immobilismo delle istituzioni Bruzzese continuerà a denunciare. «Non mollerò finché non vedrò delle misure nei confronti di questa persona. Chissà quante altre donne non dicono niente, tantissime mi hanno scritto in privato da quando ho raccontato la mia storia dicendomi di essere nella mia stessa situazione».

I casi precedenti

Prima di Elisa Bruzzese, appena tre settimane fa, era diventato noto il caso della cantante e musicista Angelica Schiatti, perseguitata dall’ex fidanzato Marco Castoldi, conosciuto come Morgan. La storia è molto simile: dopo la fine della relazione lui inizia a molestarla – stalking, minacce, insulti anche all’attuale compagno –, lei lo denuncia la prima volta nel 2020 e, dopo quattro anni, ancora nessun divieto di avvicinamento. Può continuare ad agire indisturbato, a vivere la sua vita partecipando a talk ed eventi pubblici. Tutto è rimasto esattamente come prima.

La sensibilità e l’attenzione delle persone – di alcune persone – però negli anni è cambiata. E, come per Elisa Bruzzese, anche per Angelica Schiatti non erano mancate le reazioni sui social e il conseguente clamore mediatico che, pur non sostituendo il lavoro delle istituzioni, contribuisce a fare luce su situazioni che rischiano di rimanere nell’ombra.

Il ruolo dei social di fronte alle inadempienze istituzionali è stato protagonista anche di un altro caso. Appena una decina di giorni fa il padre di Federica D’Orazio aveva raccontato le violenze e le minacce subite dalla figlia alla giornalista Valentina Rigano, che aveva spiegato la situazione in un video sul suo profilo. D’Orazio aveva denunciato il fidanzato dopo essere stata picchiata ma, dopo un anno e mezzo, le istituzioni non si erano ancora mosse per proteggerla. Il video, visto e ricondiviso da migliaia di utenti, ha suscitato l’indignazione generale. Pochi giorni dopo l’ex compagno è stato arrestato.

Forse anche nel caso di Elisa Bruzzese sarà il clamore mediatico a muovere la situazione. Nel pomeriggio, infatti, i deputati del Movimento 5 stelle, Alleanza verdi sinistra e Partito democratico hanno presentato un’interrogazione al ministro Piantedosi per «proteggere Elisa dal suo persecutore e dare un segnale a tutte le donne che stanno combattendo la sua stessa battaglia», ha detto Marco Furfaro.

«Denunciate»

L’invito delle istituzioni è – giustamente – quello di denunciare. In Italia, dall’inizio di quest’anno a oggi sono state uccise cinquantasei donne, di cui cinquanta in ambito familiare o affettivo (dati del Servizio analisi criminale del ministero dell’Interno del 29 luglio). Di queste, ventinove sono state ammazzate dal partner o dall’ex partner. E alcune prima di morire avevano sporto denuncia o contattato i carabinieri. Un esempio è Maria Batista Ferreira, che aveva già denunciato il marito (da cui si stava separando) dopo un maltrattamento ma è stata comunque uccisa a febbraio. Un altro riguarda Saida Hammounda che, tre mesi dopo Batista Ferreira e nonostante un provvedimento di allontanamento in corso, è stata raggiunta e ammazzata dal compagno.

Poi ci sono anche le donne che non denunciano perché hanno paura delle ripercussioni, perché mancano protezione e tutele immediate. Manuela Petrangeli, fucilata dall’ex alla periferia di Roma a inizio luglio, non si era rivolta alle forze dell’ordine perché aveva paura che lui la uccidesse e facesse male al loro bambino. Secondo i dati del report annuale dell’associazione D.i.Re (Donne in rete contro la violenza), solo il ventotto per cento delle donne accolte nei loro centri antiviolenza decide di avviare un percorso giudiziario. Ed è un dato stabile negli anni ma, come si legge nel rapporto, «non stupisce: la vittimizzazione secondaria da parte delle istituzioni che entrano in contatto con le donne continua a frenare l’avvio di un percorso di fiducia che possa rassicurare le donne che intendono rivolgersi alla giustizia».

Le leggi non bastano

Dalla ratifica della Convenzione di Istanbul (legge n. 77 del 2013) sulla prevenzione e il contrasto della violenza contro le donne a oggi le leggi in materia si sono moltiplicate. Gli obiettivi erano e rimangono gli stessi: la tutela delle vittime, l’accorciamento dei tempi e la prevenzione degli atti violenti.

Se però nel giro di appena un mese diventano mediatici i casi di tre donne che denunciano e rimangono inascoltate significa che quel meccanismo da qualche parte si inceppa. Anche perché è probabile che ce ne siano molte altre che non affidano la loro storia ai social e continuano a sperare che prima o poi la giustizia le protegga.

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