- I morti tra i civili secondo la Sudan Doctors’ Union - stime sempre aggiornate per difetto - sarebbero 822 mentre i feriti oltre 3000.
- A resistere, tra le poche Ong straniere, per continuare a garantire l’assistenza ai pazienti, sono i centri di Emergency sparsi in Sudan.
- «Il gasolio, i rifornimenti, i medicinali, visto che per il momento non arrivano aerei umanitari, prima o poi cominceranno a scarseggiare e se la situazione perdura inizieremo ad avere problemi».
È già passato oltre un mese dallo scoppio degli scontri che hanno velocemente condotto il Sudan verso un conflitto civile dalle conseguenze devastanti. I morti tra i civili secondo la Sudan Doctors’ Union - stime sempre aggiornate per difetto - sarebbero 822 mentre i feriti oltre 3000.
Nel frattempo le città e le zone interne si svuotano. Dopo l’uscita di scena di quasi tutte le diplomazie e di vari organismi transnazionali, è cominciato l’esodo della popolazione terrorizzata dall’escalation, vittima di stupri e violenze sommarie, stretta tra scarsità di beni primari, razzie di bande armate e assenza dei principali servizi su cui pesa la chiusura di moltissimi presidi sanitari.
A resistere, tra le poche Ong straniere, per continuare a garantire l’assistenza ai pazienti, sono i centri di Emergency sparsi in Sudan. Raggiunta al telefono da Domani, la dottoressa Daniela Rocchi, perfusionista del centro Salam, a Soba Hilla, periferia di Khartoum, l’unica unità cardiologica gratuita di tutta l’Africa, ci spiega la situazione al momento e la vita negli ospedali della Ong.
«Sono in Sudan dal 2007, ora lavoro come responsabile del servizio di perfusione (il perfusionista gestisce la circolazione extracorporea durante gli interventi a cuore aperto, ndr) del Salam center ed è la situazione più dura in cui ci troviamo da quando siamo qui. Il contesto non cambia, le tregue non vengono mai rispettate, la comunità internazionale è quasi completamente andata via. Qui, al momento siamo rimasti in sette internazionali (prima erano 50, ndr) mentre lo staff locale è quasi al completo, ma dal 15 aprile la quasi totalità vive qui, non si muove per paura di venire coinvolta nei combattimenti o di non essere in grado di ritornare al centro. Alcuni pazienti invece sono stati dimessi, altri in urgenza sono stati operati. Abbiamo al momento otto pazienti in terapia sub o intensiva oltre a 23 nella guest house dove ospitiamo pazienti che provengono dal nostro programma regionale africano, oltre a una serie di parenti. Inoltre l’ospedale è aperto per la terapia anti-coagulante, riusciamo a vedere circa una cinquantina di pazienti in presenza al giorno e si riescono a fare fino a 150 telefonate per raggiungere quelli che non riescono ad arrivare qui».
Moltissimi ospedali chiudono o sono ridotti allo stremo, stanno arrivando da voi anche altri pazienti?
«Sì purtroppo moltissimi ospedali sono chiusi e la situazione va peggiorando. Il problema è arrivare qui, noi siamo a una ventina di chilometri da Khartoum e non ci sono trasporti, sono rarissimi, chi riesce a raggiungerci, in genere, abita nella zona. Stiamo facendo valutazioni, con la sede di Milano, riguardo la possibilità di occuparci dei feriti e delle vittime degli scontri. Si tratta di valutare come procedere, una cosa che sta facendo la sede di Emergency di Milano con le autorità qui, per vedere se ci sono i presupposti e la sufficiente sicurezza per operare anche in tal senso. Per quanto riguarda gli altri due centri di Emergency aperti in Sudan (Nyala e Port Sudan, due cliniche pediatriche che hanno continuato a funzionare, mentre il presidio pediatrico di Mayo, all’interno di un campo profughi, è stato chiuso per gravi problemi di sicurezza, ndr) sono entrambi funzionanti e per il momento si occupano solo di pazienti pediatrici».
Gli scontri sono arrivati fino ai vostri centri? Siete stati coinvolti in qualche modo?
«I combattimenti sono a poca distanza dal centro Salam e sentiamo di continuo gli spari, pochi giorni fa ci sono stati pesanti bombardamenti proprio in questo sobborgo di Khartoum: c’è un ponte molto importante che è conteso tra le Rsf e l’esercito. La maggior parte degli scontri, però, sono nella capitale. A volte si avvicinano pericolosamente, altre paiono più lontani, ma non sembrano diminuire. Per quanto riguarda il centro di Port Suda, è in una città fin qui risparmiata dai combattimenti. Nyala invece si trova in Darfur, un’area gravemente colpita dal conflitto, ma per fortuna il nostro centro è stato fino a questo momento risparmiato».
La gente che vi raggiunge, cosa riporta, qual è la vita dei civili a Khartoum?
«Il nostro staff che esce per le spese, o per accompagnare colleghi e i pazienti, ci riferiscono di vivere nel terrore. La popolazione è disperata, molti hanno già perso tutto, altri sono rimasti soli perché le famiglie sono fuggite. Ci sono poi notizie di continue razzie con miliziani che occupano abitazioni e cacciano i legittimi proprietari. La gente è terrorizzata ma anche molto preoccupata perché una situazione tale potrebbe durare a lungo, in molti luoghi di Khartoum non c’è acqua, non c’è elettricità, manca il cibo, una condizione drammatica dal punto di vista umanitario».
È passato un mese dallo scoppio, che programmazione state immaginando per l’immediato futuro e più a lungo termine? Avete materiale, presidi, medicinali a sufficienza? E, soprattutto, temete per la vostra sicurezza?
«Qui al Salam ma anche negli altri due centri, non abbiamo difficoltà per il momento né per il cibo né per medicinali anche perché i consumi sono decisamente ridotti rispetto a quando funzionavamo a pieno regime. Qui siamo totalmente autonomi, abbiamo il pozzo per l’acqua, siamo collegati alla rete elettrica che in questa zona ha sempre funzionato. Certo è che il gasolio, i rifornimenti, i medicinali, visto che per il momento non arrivano aerei umanitari, prima o poi cominceranno a scarseggiare e se la situazione perdura inizieremo ad avere problemi. È passato un mese e la situazione umanitaria è peggiorata, noi siamo rimasti qui, compreso lo staff locale in modo volontario, come sa alcuni nostri colleghi sono andati via e per il momento riusciamo a gestire l’ospedale grazie ai locali, senza di loro non sarebbe possibile. Viviamo con ansia e non sappiamo mai cosa succederà il giorno dopo. Ma io mi fido molto delle valutazioni di Emergency, se ci dicono che sarà meglio andare via, dovremo purtroppo andarcene. Siamo qui perché volevamo tenere aperto questo ospedale, eravamo pieni di pazienti e non volevamo lasciarli.
Sicuramente alla fine delle ostilità la situazione sarà drammatica, una grossa crisi umanitaria. Ogni giorno in più è un dramma. Speriamo che cessino i combattimenti al più presto, che possano essere aperti canali umanitari che permettano a organizzazioni, colleghi e operatori di tornare e aiutarci. Noi siamo un ospedale cardochirurgico completamente gratuito, l’unico del continente africano l’obiettivo è tenerlo aperto e operare. Tenga presente che dal 2007 a oggi, abbiamo avuto più di 10mila casi e al momento abbiamo migliaia di pazienti in terapia anticoagulante che se andiamo via non sappiamo che fine faranno. Il nostro primo obiettivo, quindi, è rimanere qui a fare il nostro lavoro».
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