- Senza Enzo Bianchi, la comunità di Bose non sarebbe esistita, eppure Bose può esistere anche senza Enzo Bianchi. Scaduto il termine imposto dalla Santa sede per lasciare la comunità da lui fondata, l’ex priore non si è ancora mosso da dove tutto è nato.
- Un fatto all’apparenza inspiegabile, perché la volontà di dimissioni era stata anticipata dallo stesso Bianchi nel 2014, poi rimarcata nel 2017 all’indomani del cambio di testimone.
- Nonostante l’elezione di Manicardi, Bianchi ha continuato a rivendicare una parte direttiva nella comunità. È probabile che, fino alla fine, l’ex priore cercherà una sistemazione.
Senza Enzo Bianchi, la Comunità di Bose non sarebbe esistita, eppure Bose può esistere anche senza Enzo Bianchi. Scaduto il termine imposto dalla Santa sede per lasciare la comunità da lui fondata negli anni Sessanta, l’ex priore non si è ancora mosso da dove tutto è nato. Eluso il “decreto singolare” firmato dal segretario di Stato, Pietro Parolin, dallo scorso maggio Bianchi risiede a un centinaio di metri dai suoi confratelli.
Per ora l’idea di raggiungere la pieve di Cellole di San Gimignano, messagli a disposizione in comodato d’uso dalla stessa comunità, sembra essere stata accantonata: che sia la pandemia o la salute cagionevole, a oggi Bianchi rimane in Piemonte nonostante un decreto pontificio di allontanamento, da lui stesso accettato e firmato. I tre confratelli, che come lui avrebbero dovuto allontanarsi da Bose, si sono già trasferiti altrove.
Un convitato di pietra
La presenza di Bianchi come convitato di pietra a Bose non favorisce il governo del suo successore, il priore Luciano Manicardi. Un fatto all’apparenza inspiegabile, perché la volontà di dimissioni era stata anticipata dallo stesso Bianchi nel 2014, poi rimarcata nel 2017 all’indomani del passaggio di testimone. Proprio in preparazione a tale passo, Bianchi nel 2014 aveva chiesto una “visita fraterna” dell’abbadessa Anne-Emmanuelle Devêche e dell’abate di Chevetogne, il benedettino Michel Van Parys, poi presente come garante esterno nel consiglio generale che eleggerà Manicardi nel 2017. Già in quella visita si ribadiva la sostanziale bontà della comunità, ma anche la necessità di un cambio di leadership a Bose.
«Nella storia di ogni nuova comunità monastica il passaggio di guida dal fondatore alla generazione seguente è un segno positivo di crescita e di maturità», scrive Bianchi nella lettera Traduntur cervi al momento dell’annuncio ufficiale delle proprie dimissioni. Sembra, però, che il cervo capofila non voglia poggiare il capo su chi lo segue.
Sovraesposizione mediatica
In base allo Statuto originario, oggi la Comunità di Bose figura ancora come una «associazione privata di fedeli», la forma più semplice di associazione prevista dal diritto canonico. Da qui prende le mosse il documento pontificio, che i più hanno ridotto a un ordine di allontanamento, oscurandone tutta la sua portata. La lettera firmata dal cardinale Parolin, infatti, invita al contempo la comunità a intraprendere un cammino nel solco del «carisma fondativo di Bose», non del suo fondatore. È la prima volta che la Santa sede chiede a una comunità composita di uomini e donne, cattolici e non, di porre le basi per un riconoscimento istituzionale nell’alveo della tradizione monastica: un fatto nuovo, adombrato da quella che la giornalista Marie-Lucile Kubacki ha definito sul settimanale francese La Vie «una brutta telenovela».
Lo scorso maggio, il teologo Giuseppe Ruggeri scriveva sul Fatto Quotidiano: «Enzo è il fondatore, quella è una sua creatura. È impossibile pensare Bose senza Bianchi». È tuttavia lecito chiedersi se l’esperienza originaria di «vita addossata al deserto», secondo l’espressione dello stesso Bianchi, non abbia invece lasciato il posto alla sovraesposizione mediatica maturata nel corso degli anni. Ne è un esempio il volume pubblicato per i 70 anni dell’ex priore, La sapienza del cuore (Einaudi, 2013), che in 750 pagine annovera oltre 124 contributi da autori diversi – c’è persino uno spartito inedito di Arvo Pärt – lontanamente comparabile alla semplice pagina “memoria e ringraziamento” pubblicata sul web per i cinquant’anni della Comunità di Bose: una sostanziale differenza di tono che dice molto sul basso profilo che la comunità auspicava come proprio.
La diarchia di Bose
Nonostante l’elezione di Manicardi, Bianchi ha continuato a rivendicare una parte direttiva nella comunità, mantenendo per esempio l’organizzazione dei convegni internazionali di spiritualità ortodossa e di liturgia, nonché la direzione dei progetti editoriali, favorendo così una diarchia che ha inasprito lo spirito comunitario.
L’insofferenza ha raggiunto l’apice quando, due anni dopo l’elezione di Manicardi, la comunità nel 2019 ne ha prorogato la guida in una votazione di riconferma prevista dallo statuto a maggioranza semplice. Per statuto, gli esiti delle votazioni capitolari sono segreti. Tuttavia, in un lungo articolo in difesa di Bianchi pubblicato sul blog Riprendere altrimenti, Riccardo Larini, non più monaco di Bose da oltre dodici anni, afferma che allora «nel voto di conferma della sua (di Manicardi, ndr) elezione ben 18 fratelli e sorelle (un terzo dei professi all’incirca, numero enorme a così breve distanza dall’elezione!) votassero no». Eppure, dando per vero questo e ribaltando la prospettiva, l’esito stesso potrebbe essere visto come favorevole verso Manicardi il quale, nonostante due anni difficili, avrebbe ricevuto il sostegno di ben due terzi della Comunità.
Arriva la Santa sede
Nonostante le divergenze sempre più evidenti, da Bose nessuno della comunità si sarebbe rivolto direttamente alla Santa sede. Ma a Roma le segnalazioni di un clima sfavorevole giungono lo stesso, al punto che la segreteria di Stato contatta il priore chiedendone conferma.
Palesato il disagio nella comunità, la Santa sede invia a Bose padre Amedeo Cencini, l’abbadessa Devêche e l’abate benedettino Guillermo Leon Arboleda Tamayo per una visita a cavallo tra dicembre 2019 e gennaio 2020. Tutti i membri vengono ascoltati a più riprese: gli esiti dell’équipe vaticana porteranno al noto decreto datato 13 maggio. La Santa sede, però, non ritiene di dover commissariare la comunità, come fatto per altre realtà religiose: questo è un aspetto significativo, perché per Roma la radice dei problemi non starebbe nella gestione del priore Manicardi, come invece fanno intendere i critici.
Per comunicare a Bianchi e alla comunità la decisione della Santa sede, giungono il segretario della Congregazione per gli istituti di vita consacrata, l’arcivescovo José Rodríguez Carballo, e l’arcivescovo di Vercelli, monsignor Marco Arnolfo. A Bianchi e a tre monaci viene diramato l’ordine di lasciare la comunità entro dieci giorni, incluso l’impegno di non avere più contatti con la comunità.
I tre lasciano la borgata pochi giorni dopo. Bianchi, l’unico per il quale il decreto ha valore a tempo indeterminato, attenderà dieci giorni prima di firmare il documento e accettare quanto chiesto da papa Francesco, ma non accenna a lasciare il luogo. Sopraggiunta l’emergenza sanitaria, la comunità pensa a una soluzione che accontenti entrambi. Questa viene trovata nella diocesi di Volterra, dove la fraternità possiede una pieve distaccata.
A Cellole di San Gimignano, infatti, è presente dal 2013 una fraternità di Bose i cui membri, per consentire il trasferimento di Bianchi, vengono richiamati in Comunità. Per giunta, lo stesso ex-priore non aveva fatto segreto con nessuno che Cellole avrebbe potuto diventare il luogo in cui vivere gli ultimi anni della sua vita, al punto che, in fase di ristrutturazione, aveva dato suggerimenti molto concreti sulla sistemazione dei locali. In ottemperanza al decreto, a Bianchi è concesso il trasferimento insieme ad alcuni fratelli disponibili ad accompagnarlo e a vivere con lui extra domum. Il delegato pontificio invia due fratelli di stanza nella pieve ormai svuotata di Cellole, in attesa del trasferimento di Bianchi.
Il Vaticano ancora in attesa
Ma l’ex priore si rifiuta di trasferirsi accusando condizioni disumane: viene da domandarsi a cosa si riferisca Bianchi dato che l’ottimo stato degli immobili dopo la ristrutturazione è sotto gli occhi di tutti. I difensori di Bianchi puntano il dito contro l’organigramma di Bose, dal priore all’economo, coinvolgendo finanche il delegato pontificio, di cui si mette in dubbio persino la credibilità accordatagli dalla Santa sede: «Padre Cencini impugna l’arma del confino con la ferocia dei più biechi controriformisti e alla riconciliazione giudicata impossibile preferisce l’allontanamento perpetuo del padre di Bose dalla comunità che ha fondato», ha scritto Massimo Recalcati sulla Stampa appellandosi alla clemenza di papa Francesco, dimenticando che un delegato è, in ottemperanza al diritto canonico, espressione stessa dell’autorità pontificia.
Molti parlano di un intervento punitivo da parte della Santa sede. Eppure, alcuni conti non tornano: perché nessuno dei membri non cattolici della Comunità di Bose ha finora dissentito dall’allontanamento di Bianchi, da alcuni reputato una pesante ingerenza vaticana?
A oggi, il delegato pontificio è ancora a Bose in attesa della partenza di Bianchi che, nonostante nove mesi di tempo per organizzarsi, ha disatteso ogni scadenza. È probabile che, fino alla fine, l’ex priore cercherà una sistemazione. «Senza api, lombrichi la vita non si tiene. Ma senza noi, lo sappiamo, tutto procede», aveva scritto la poetessa Mariangela Gualtieri sulla pagina web del monastero di Bose nelle scorse settimane. A distanza di pochi giorni, la poesia è stata poi rimossa dal sito: l’esergo calzante per rappresentare un inizio che vive di nostalgia e fatica ad aprirsi al futuro.
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