Nel giugno 1967 Benedetti si dimetteva dal settimanale che aveva fondato, in seguito a un contrasto di opinioni con il direttore e cofondatore Eugenio Scalfari. In Medio Oriente si era appena combattuta la Guerra dei sei giorni, vinta da Israele, e Benedetti aveva sostenuto che la vittoria era legata a una superiorità culturale di Israele, inducendo il direttore a prendere le distanze
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Eugenio Scalfari (foto LaPresse)
Il 26 giugno 1967, Eugenio Scalfari dalle colonne dell’Espresso, in un articolo intitolato A un amico che ci lascia, annunciava ai lettori la decisione di Arrigo Benedetti, fondatore del settimanale, di dimettersi. Lo faceva dallo spazio che fino a quel momento era appartenuto proprio a Benedetti e che aveva ospitato la sua rubrica Diario Italiano. Nel comunicare ai lettori la decisione del fondatore, che arrivava dopo un contrasto interno al giornale, maturato parallelamente alla Guerra dei sei giorni, Scalfari coglieva l’occasione per riaffermare qual era «linea» dell’Espresso. Questo articolo è presente nel Meridiano Mondadori dedicato a Scalfari, lo riproduciamo per gentile concessione dell’editore.
A un amico che ci lascia
Per la prima volta da quando, dodici anni fa, L’Espresso fu fondato da Arrigo Benedetti, la sua nota non appare in questa parte del giornale né altrove. Arrigo Benedetti ha infatti deciso di dare le dimissioni da collaboratore ed ha spiegato sulla Voce Repubblicana di sabato scorso quelle che, a suo parere, sono le ragioni che l’hanno indotto ad un passo che, se a lui deve essere molto costato, moltissimo costa a noi da ogni punto di vista, giornalistico, politico e, soprattutto, umano.
Contro le accuse dell’Unità
Nel momento in cui debbo annunciare ai lettori dell’Espresso la decisione di Benedetti voglio anche, se mai ce ne fosse bisogno, ribattere una accusa vergognosa che è stata lanciata contro di lui. L’accusa viene dall’Unità che, traendo pretesto da un civile dibattito d’opinioni avvenuto tra Benedetti e me nell’ultimo numero dell’Espresso, ha creduto di colpirlo con la definizione di “razzista”, un’accusa (come ho già scritto in una mia lettera all’Unità) che non colpisce l’uomo cui è diretta, ma squalifica chi la fa.
L’opinione pubblica di questo Paese sa chi è Benedetti, quali battaglie ha combattuto, quali amici si è scelto e quali avversari ha dovuto affrontare.
Trent’anni di vita e di giornalismo testimoniano per lui e danno la misura della sua coscienza morale e del suo impegno civile di democratico e d’antifascista. Ci ha insegnato non soltanto un mestiere, ma la coscienza e la probità morale con cui dev’essere esercitato.
Un mestiere non comodo
Non è un mestiere comodo: impone una continua testimonianza di verità, senza badare alle conseguenze che può produrre, ai nemici che può creare, agli amici che può alienare. A quell’insegnamento abbiamo cercato d’essere sempre fedeli.
Talvolta testimoniare la verità (o almeno quella che a noi risulta tale) provoca dubbi e domande. Se state dalla parte dell’America, ci si chiede, perché ne criticate la politica vietnamita? Allora state con la Russia e coi comunisti. Ma come mai, contemporaneamente, attaccate i comunisti e la Russia per tutto quanto v’è nella loro politica di illiberale, di poliziesco e di aggressivo?
Avete voluto il centrosinistra quando non lo voleva nessuno, ma ora non ne siete soddisfatti. Criticate la Democrazia cristiana e i suoi metodi di malgoverno e di sottogoverno. Dunque appoggiate i socialisti. E allora perché mai criticate anche i socialisti senza neppure quella carità che è dovuta agli amici politici?
Da che parte state?
Insomma, da che parte state e con chi? Rispondo: non abbiamo mai pensato che un gruppo, un partito politico, uno Stato, un sistema d’alleanze, siano i depositari esclusivi del bene o del male; non abbiamo mai creduto che il mondo si potesse dividere col gesso in buoni e cattivi; abbiamo sempre respinto la verità “rivelata” e sempre abbiamo cercato e cerchiamo la verità “verificata” dai fatti e dall’intelligenza della ragione. Per questo siamo “liberali”; per questo siamo “laici”. Non amiamo le crociate; preferiamo la saldezza dei principi all'emotività delle passioni.
Della civiltà americana e occidentale amiamo tutto quanto c’è in essa (e ce n’è moltissimo) di democratico e di liberale, amiamo la possibilità e la capacità di “dissenso” che essa riesce ad esprimere e che le conferiscono un’indubbia superiorità su altre forme di convivenza sociale. Tanto più dura dunque è la nostra opposizione quando, all’interno di quel sistema, al quale apparteniamo, vediamo affacciarsi forze e gruppi, siano essi McCarthy o Goldwater o i falchi oltranzisti, che rischiano di distorcere i principi su cui esso si fonda e di farlo inclinare verso politiche di pura potenza.
Non a caso, nel momento in cui scoppiava nel Medio Oriente un conflitto gravissimo e il popolo d’Israele veniva aggredito e minacciato di sterminio, ricordavamo i pericoli impliciti nelle vicende vietnamite. La violenza reca purtroppo con sé la violenza, e può aprire un circolo vizioso che può condurre molto lontano.
La linea dell’Espresso
Questa è la “linea” dell’Espresso. Se ci guardiamo intorno, nel nostro Paese soltanto i socialisti si sono mossi nella stessa direzione. Purtroppo le loro forze non sono state sufficienti a far prendere al governo italiano una posizione abbastanza chiara a favore d’Israele, così come non sono state sufficienti a fargli prendere posizione per la cessazione dei bombardamenti americani nel Vietnam. Avrebbero potuto far di più? Non lo sappiamo, ma questa è la giusta linea sulla quale riteniamo che ci si debba muovere e sulla quale sia noi che loro ci siamo mossi.
Qualcuno dirà o penserà che questa linea ha il torto di non scegliere una volta per tutte un campo contro l’altro. Ma chi dice o pensa in tal modo commette un errore assai grave, perché noi, il nostro campo, l’abbiamo scelto da molto tempo e una volta per tutte: siamo contro le dittature di qualsiasi colore, sovietiche, greche, spagnole o nasseriane che siano; siamo contro la violenza e l’incitamento alla violenza da qualunque parte provenga; siamo per Israele quando il suo diritto alla vita è minacciato e siamo per una pace giusta che ne garantisca i confini e gli consenta finalmente d’avviare un processo di distensione e d’amicizia coi popoli arabi in mezzo ai quali deve vivere.
Siamo, dovunque, con le colombe e contro i falchi, anche se è vero che talvolta, per sopravvivere, le colombe debbono mettere becco ed artigli. Per difendersi. Mai per aggredire.
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