- Il campionato europeo di calcio è la riconferma di una simbiosi esatta tra sport e politica in cui è impossibile distinguere chi sia l'uovo e la gallina.
- Capitali troppo a lungo sotto il giogo di Mosca schierano formazioni che sono monumenti alla purezza della razza. Al contrario, a ovest, oltre quella che fu (fu?) la cortina di ferro, democrazie di più lunga tradizione sfornano nazionali frutto della mescolanza e del riconoscimento di un sostanziale ius soli di fatto se non ancora, in alcuni casi, di diritto.
- Spagna e Italia si possono considerare alla stregua di eccezioni se fermano a tre la conta, tutti reclutati peraltro nel mondo occidentale.
Ci sono due Europe, separate da una linea che ricalca, grosso modo, quella della Guerra Fredda, segno di una persistenza della storia che sopravvive agli sconvolgimenti, persino a quelli epocali: certe eredità non si cancellano nemmeno dopo le rivoluzioni, cosmetiche o reali che siano. Il campionato europeo di calcio è la cartina di tornasole esemplare del dualismo, la riconferma di una simbiosi esatta tra sport e politica in cui è impossibile distinguere chi sia l'uovo e la gallina, l'uno è la continuazione dell'altra e viceversa.
Tra est e ovest
Le dittature del patto di Varsavia si sono sfasciate in democrazie recenti che inclinano in “democrature”, o in “regimi illiberali”, con un saldo denominatore comune nel primato dell'etnia, la scarsa o nulla considerazione delle minoranze, il rifiuto a qualunque titolo dei migranti, siano essi economici, profughi di guerra, richiedenti asilo. Capitali troppo a lungo sotto il giogo di Mosca riscoprono l'ebbrezza dell'essere tornati (o essere finalmente) padroni a casa propria e valutano l'appartenenza tribale come valore fondante.
Declinata nel pallone, è la voglia di applaudire campioni del proprio cortile, riconoscersi negli identici. E non deve sorprendere, dunque, se schierano formazioni che sono monumenti alla purezza della razza. Al contrario, a ovest, oltre quella che fu (fu?) la cortina di ferro, democrazie di più lunga tradizione sfornano nazionali frutto della mescolanza e del riconoscimento di un sostanziale ius soli di fatto se non ancora, in alcuni casi, di diritto.
Pur edulcorato per la sua natura planetaria, già il mondiale di Russia 2018 aveva segnalato la tendenza. L'atto finale aveva rappresentato una contrapposizione ideologica tra la Francia multietnica blanc, bleu e beur che non piaceva a Marine Le Pen ma era il riassunto di una nazione con sette milioni e mezzo di immigrati o figli di, e la Croazia dell'etnocentrismo che aveva diversi “stranieri” solo per l'anagrafe essendo in realtà tutti croati dell'Erzegovina, cioè fratelli separati di quella regione che nel sogno dei nazionalisti dovrebbe essere annessa a Zagabria. E con la sola eccezione, tuttavia rilevante, del portiere Danijel Subasic, nato sì a Zara ma di famiglia serba e diventato il “nemico-eroe” per i tre rigori parati agli ottavi contro la Danimarca.
I calciatori si caricavano in ritiro e negli spogliatoi ascoltando le canzoni di Marko Perkovic, in arte “Thompson” dal fucile che imbracciava durante la guerra d'indipendenza degli anni Novanta, nelle quali riecheggia il motto «za dom spremni!», per la patria, pronti!, del nefasto regime ustascia alleato con Hitler di Ante Pavelic.
Le nazionali
Francia: La Francia che vince negli stadi solo da quando si è aperta all'estro dei suoi ragazzi assimilati è ancora capofila dell'occidente “senza frontiere” se conta ben diciassette giocatori che non hanno il dna della purezza gallica. Potenza della sua postura d'accoglienza radicata da oltre un secolo e nonostante la crescita impetuosa di una destra xenofoba e razzista. Qualche concessione al proverbiale sciovinismo la fa scivolare semmai nel cattivo gusto se dopo l'esordio vittorioso con la Germania il giornale l'Equipe ha titolato a nove colonne in prima pagina «Comme en 18», “Come nel 18”, allusione ambivalente al titolo guadagnato tre anni fa e all'esito vittorioso della Prima guerra mondiale con la riconquista dell'Alsazia e della Lorena. E il Twitter ufficiale della squadra ha rincarato con «Soldats», soldati ovviamente, parallelismo piuttosto indigesto.
Svizzera: La Svizzera fresca avversaria dell'Italia, che non per caso nasce confederale ed è terra d'approdo per chi cerca pace nel paese della neutralità, ne ha racimolato sedici in vari angoli del pianeta, tra Nigeria, Congo, Senegal, Angola, Repubblica Domenicana, Cile, Capo Verde, Portogallo, oltre ai profughi balcanici dei conflitti di trent’anni fa, ancora profondamente legati alle origini se alcuni albanesi durante l'ultimo mondiale scatenarono polemiche nella partita con la Serbia mimando il battito d'ali dell'aquila che sta sulla bandiera di Tirana.
Inghilterra: L'Inghilterra sembra il riassunto del suo passato imperiale che ha portato masse di persone dal Commonwealth a Londra e dintorni e ha una lunga tradizione di integrazione communitarista, seppur entrata in crisi tra attentati islamisti e la decisione di tornare allo “splendido isolamento” con la Brexit. Non nel calcio, tuttavia, se coloro che si considerano maestri del pallone usano con disinvoltura chi lo sa calciare qualunque sia la sua provenienza. E così i sette che vestono la maglia portoghese avendo altre identità ricordano i tempi in cui Lisbona estendeva i suoi domini in aree di quattro Continenti.
Olanda, Belgio, Germania: L'Olanda e il Belgio sono storicamente innervate da talenti d'importazione. La Germania rispecchia la liberalità delle sue frontiere aperte a caccia di braccia per la fiorente economia (sei pescati altrove).
Sette finlandesi, quattro svedesi e tre danesi non sarebbero tali per nascita. Spagna e Italia: Scendendo a sud Spagna e Italia si possono considerare alla stregua di eccezioni se fermano a tre la conta, tutti reclutati peraltro nel mondo occidentale. I tre azzurri, Jorginho, Emerson e Toloi sono gli eredi degli oriundi che tanta gloria portarono in passato per non essere poi più usati tra gli anni Sessanta e il nuovo Millennio. Lo stesso commissario tecnico Roberto Mancini che ne aveva deplorato l'arruolamento ha rivisto ora le proprie idee.
Polonia e gruppo di Visegrad: Comunque sia, molto diversamente vanno le cose a oriente. Nessuna sorpresa nello scoprire che la Polonia dell'uomo forte Jaroslaw Kaczynski presenta solo atleti di sicuro sangue polacco (quello che entra persino nell'inno nazionale italiano). La sua politica sovranista avrebbe mal sopportato che la bandiera fosse sventolata idealmente da qualcuno che lui respingerebbe volentieri al confine. E così altri due paesi del gruppo di Visegrad refrattario ad accogliere immigrati. Repubblica Ceca e Slovacchia pure sono autarchiche al 100 per cento. Mentre il quarto elemento della stessa alleanza, l'Ungheria di Viktor Orban accetta l'eccezione di un serbo e riaccoglie nel grembo tre suoi cittadini, Willi Orban (omonimo), Loic Nego e Filip Holender, nati all'estero, rispettivamente in Germania, Francia e Serbia.
Ungheria: L'Ungheria è il paese che rifiutò di aprire le porte a 180 migranti quando l'Unione europea tentò una timida redistribuzione per non gravare totalmente sugli stati d'approdo del Mediterraneo. Motivo: avrebbero minato l'identità ungherese, dieci milioni di abitanti!
Ucraina e Russia: L'Ucraina, che un incidente geopolitico lo voleva scatenare presentandosi con la scritta sulle maglie «Gloria agli eroi», riferimento alla rivolta anti-russa di piazza Maidan (il compromesso è lo slogan coperto per decisione dell'Uefa) e con una cartina del paese che comprende ancora la Crimea conquistata da Mosca, ha un solo brasiliano e tutti gli altri di provato seme genuino. Esattamente come la squadra di Vladimir Putin.
Croazia e Macedonia del Nord: La ex Jugoslavia è presente con due nazionali generate dalla sua implosione. La Croazia conferma la sua vocazione e recluta fuori frontiera solo due croati di Erzegovina oltre a due conoscenze del nostro campionato, Kovacic e Pasalic, nati rispettivamente in Austria e Germania ma da famiglie croate. Dunque, in definitiva, è etnicamente pura e senza nemmeno più il portiere serbo. La Macedonia del Nord onora il suo nome che allude alla mescolanza persino nella frutta presentando sei albanesi, di un'etnia cioè maggioritaria lungo la linea del suo territorio che corre tra Tetovo, Gostivar e il lago di Ocrida. Ed è peraltro uno stato che ha qualche lembo conteso da Serbia, Bulgaria, Grecia e Albania. Dunque la sua identità è per forza plurale.
Turchia: Resta infine laggiù, nel fianco sud-est, la Turchia di Recep Tayyip Erdogan che, come ci si sarebbe potuto aspettare ha solo cognomi nella sua lingua, raccolti, oltre che in patria, nei luoghi della diaspora, Germania-Austria-Olanda, di quando il collasso economico spingeva i discendenti dell'Impero ottomano a cercare fortuna altrove.
È dunque un europeo di calcio tra due differenti interpretazioni dell'identità. Chi privilegia quella di nascita e chi quella legata al suolo calpestato. Non è forse il grande tema della contemporaneità?
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