- “Una madre” è il libro scritto da Vera Politkovskaja, con la giornalista Sara Giudice, edito da Rizzoli (in libreria dal 21 febbraio, traduzione dal russo di Marco Clementi), che racconta la vita e le battaglie per la libertà di stampa della giornalista russa, Anna Politkovskaja, uccisa a Mosca, il 7 ottobre 2006, dopo aver denunciato scandali, corruzioni e omertà nella Russia di Putin.
- Nel racconto della figlia anche la fuga dal paese dopo l’inizio della guerra in Ucraina.
- «Una volta superato lo shock iniziale, ho cominciato a ragionare su cosa avrei dovuto fare. Prima di tutto, ho capito quasi subito che dovevo lasciare il lavoro. Il clima peggiorava di giorno in giorno. Uno dopo l’altro hanno chiuso i mezzi di informazione indipendenti», si legge nel libro.
La settimana seguente l’inizio della guerra in Ucraina è trascorsa nella confusione più totale. Non riuscivo a lavorare bene: era difficile concentrarmi su qualcosa che non avesse a che fare con la nuova realtà.
Ogni mattina mi svegliavo con la speranza che tutto fosse solo un sogno. Invece la realtà era lì sotto i nostri occhi, impietosa, e in uno stato di totale scoramento ho continuato a svolgere i miei doveri quotidiani.
Costringendomi a smettere di leggere le notizie, mi ripetevo un proverbio tedesco che dice più o meno: «La guerra è guerra, ma la vita continua». Ho cresciuto mia figlia da sola e, come ogni madre single, non ho quasi mai avuto del tempo libero. (...)
Prima di tutto, ho capito quasi subito che dovevo lasciare il lavoro. Il clima peggiorava di giorno in giorno. Uno dopo l’altro hanno chiuso i mezzi di informazione indipendenti e hanno cominciato ad arrestare chiunque osasse manifestare la propria contrarietà alla guerra.
Fin dai primi giorni dell’invasione, in Russia è stata effettivamente introdotta la censura militare: i media sono stati obbligati a utilizzare solo informazioni provenienti da fonti ufficiali ed è stato vietato definire «guerra», o anche solo «attacco», l’offensiva russa contro l’Ucraina. Si trattava di un’«operazione militare speciale».
La diffusione di informazioni da canali non ufficiali inizialmente comportava una multa, quindi la sospensione dell’attività, infine il ritiro della licenza per trasmettere, radio o televisione che fosse, o per stampare e vendere il giornale.
Nel corso del primo mese di guerra, in Russia sono state varate alcune leggi che introducevano la responsabilità amministrativa e penale per la diffusione di «fake news» riguardanti le azioni dell’esercito russo, con una pena prevista fino a quindici anni di carcere.
Ciò ha permesso di arrestare diverse persone che avevano criticato l’operato dei militari russi in Ucraina sui social o sui propri blog. Mi sono licenziata senza spiegare a nessuno i motivi della mia decisione. Volevo che dei nostri piani fosse al corrente solo un ristretto numero di persone. Piani che poi si riducevano in sostanza al primo step: lasciare la Russia al più presto.
Tra l’altro, come avevo ipotizzato, il programma per cui lavoravo non è vissuto a lungo. Poche settimane dopo è stato chiuso, anche se il canale trasmette ancora. A tutte le difficoltà oggettive connesse con l’inizio della guerra se n’è aggiunta una ulteriore, che riguarda solo mia figlia: inconsapevolmente si è ritrovata anche lei sulla linea del fuoco.
Lei si chiama come la nonna, Anna Politkovskaja, e per questo a scuola è stata subito oggetto di atti di violenza e di bullismo. A dire la verità, era già accaduto in passato. Quando Anna visitava una nuova palestra per un corso di ginnastica, le veniva spesso ricordato dai suoi coetanei, ovviamente in forma offensiva, da quale famiglia provenisse. Dopo il 24 febbraio 2022, però, la mancanza di rispetto si è trasformata in minaccia.
Anna ha quindici anni, vissuti con grande entusiasmo e spensieratezza. È il tipo di adolescente che durante le discussioni in classe interviene citando gli articoli della Costituzione, per richiamare l’osservanza delle leggi. Non ha mai avuto una mentalità sovietica e nel sistema educativo russo questo già la metteva in cattiva luce, ma ora rischiava di finire in guai seri.
L’istituto che frequentava è molto rinomato tra i licei moscoviti, con studenti provenienti da tutto il mondo, e l’indirizzo che aveva scelto prevedeva che una parte del programma fosse svolta in spagnolo.
Un giorno è tornata a casa, seria. «Mamma, oggi in classe ci siamo messi a parlare della situazione in Ucraina e mi sono scontrata con i miei compagni.» Sebbene avessi cercato più volte di spiegarle che non in tutti i contesti è necessario esprimere la propria opinione, conoscevo bene il carattere di mia figlia e potevo immaginare con quale enfasi avesse difeso le sue idee.
Anna era fortemente contraria all’operazione militare speciale in Ucraina e, come tutti in famiglia, esprimeva il suo dissenso nei confronti del baratro morale in cui stava sprofondando il nostro Paese. Commentava le immagini che riusciva a trovare su Telegram. Immagini delle città distrutte che guardava con sgomento e indignazione. E a causare una tale devastazione era la Russia
di Putin.
Le cose a scuola peggioravano. Ogni volta che tornava a casa sembrava più tesa del giorno prima, fino a quando, una sera, ha ricevuto sul telefono un messaggio terribile. La misura era colma. Nella mia vita ho visto di tutto ed è difficile che qualcosa possa spaventarmi davvero, ma qui si trattava di mia figlia.
Quel messaggio, al quale ne seguirono altri dello stesso gruppo di compagni di scuola, conteneva chiare minacce alla sua vita, così chiare che c’erano tutti i presupposti per una denuncia penale.
«Farai la fine di tua nonna» ha promesso a mia figlia una compagna di classe, Agata, raccontandole nel dettaglio come sarebbe accaduto. Anja si è molto impaurita, senza tuttavia capire fino in fondo il perché di una tale cattiveria.
Avevo già deciso che Anja non avrebbe più messo piede in quella scuola, o in qualunque altra in territorio russo. Ma almeno speravo, insieme agli organi direttivi dell’istituto, di dare una lezione di vita agli studenti.
In quel momento gli insegnanti hanno minimizzato la portata delle minacce e della violenza che si erano abbattute su mia figlia, cercando di convincermi che quel gruppetto di adolescenti non aveva mai fatto nulla del genere prima, che provenivano tutti da famiglie «per bene» e che si era trattato senz’altro di un malinteso.
Mi assicurarono comunque che avrebbero parlato con i ragazzi e fatto piena luce sull’accaduto. Ero scettica. (...)
Solo un compagno ha mandato ad Anna un lunghissimo messaggio, nel quale, però, le faceva notare che, «se ti vai a cercare i problemi, poi non ti puoi lamentare delle conseguenze». Come ho detto, in Russia la libertà è un lusso che si paga caro, anche per le giovani generazioni.
Eppure le minacce di morte di gruppo sono punite in maniera severa da un articolo specifico del codice penale e io avevo prove sufficienti per denunciare quei ragazzi, che ormai avevano l’età per rispondere personalmente delle loro azioni in sede penale. Ma non me la sono sentita d’intraprendere l’ennesima lotta. Inoltre, dovevo considerare il fatto che nel mio Paese, se tocchi il tasto sbagliato o la persona sbagliata, in un attimo da accusatore diventi accusato e questo mi avrebbe fatto perdere tempo prezioso.
Avevamo altri piani e non ce lo potevamo permettere. Ormai ero sicura: l’unica cosa da fare era lasciare il Paese (...)
Sebbene nella mia vita avessi affrontato da sola tante situazioni non facili, questa mi sembrava la più complessa. Trovata finalmente una destinazione, alle otto del mattino di domenica 17 aprile 2022 tutto era pronto. Non c’era tempo per i ripensamenti o per la nostalgia. Io e Anja abbiamo chiuso la porta di casa e non ci siamo più voltate indietro.
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