Domenico non riesce più a mangiarla la farina di castagne. Ne ha mangiata troppa da bambino, a Vinca. Per fame e per paura. Nell’estate del 1944 ha mangiato solo quella, rinchiuso in un capanno, mentre si nascondeva dai soldati tedeschi che gli avevano ucciso la nonna. Temeva che tornassero. Come avevano fatto per quattro giorni di seguito. Per aggiungere ai morti altri morti. Al dolore altro dolore. Domenico c’era. Aveva pochi anni ma ricorda i soldati che lo cercavano, mentre tratteneva il respiro in una grotta insieme ad altri. Non li hanno trovati. Così è sopravvissuto ed è arrivato a diventare bisnonno. Era piccolo ma il rumore dei passi dei soldati non lo dimentica.

Anche Davide mangia malvolentieri la farina di castagno. C’era anche lui da bambino a Vinca, in quei terribili giorni. Lo ha portato via di corsa la zia, caricandoselo sulle spalle, con la sola canottiera addosso. La nonna, che gli faceva da madre, si è attardata pochi minuti. Voleva prendere della farina per dargli da mangiare. I soldati sono arrivati prima e l’anno ammazzata. Quando a sera sono tornati a casa, per non fargliela vedere, gli hanno messo una coperta sulla testa fingendo un gioco. Come Benigni, nella Vita è bella, in quei momenti tragici, chi gli voleva bene ha fatto ricorso alla fantasia per salvaguardare l’innocenza di un bambino.

Il rastrellamento

Tra il 24 e il 27 agosto del 1944 a Vinca, in Lunigiana, nell’alta Toscana, si è compiuto uno dei molti eccidi che hanno funestato la ritirata tedesca in Italia. Il “rastrellamento” venne realizzato da alcuni battaglioni delle SS che operavano sul fronte occidentale della linea gotica. Le operazioni sul campo furono dirette dal famigerato maggiore Walter Reder, soprannominato il “monco”, diventato tristemente noto per le stragi di Sant’Anna di Stazzema e Marzabotto. Anche i massacri hanno bisogno dei loro specialisti.

A Vinca la violenza nazista ha colpito prevalentemente donne, bambini e disabili. Dispiegando tutto un repertorio di crimini che ci è dolorosamente noto. Non solo le uccisioni, i saccheggi e i roghi delle case, ma anche gli stupri, gli impalamenti, il tiro al piccione con i neonati e i feti strappati dalle pance delle donne incinte. Al mandrione, un recinto per le pecore, dopo una giornata di violenze, un folto gruppo di donne e bambini venne trucidato a colpi di mitraglia e bombe a mano. Dopo la guerra vi fu apposta una lapide per commemorare le 29 vittime della “furia nazista”. I paesani la distrussero poco dopo. Volevano che fosse cambiata la scritta. Perché furono i nazi-fascisti a compiere la strage. Tra chi sparava, infatti, si parlava il dialetto carrarese. Perché a massacrare donne e bambini c’erano oltre un centinaio di militi fascisti, messi a disposizione dal colonnello Giulio Ludovici: il comandante della Brigata Nera Mussolini di Carrara, nota come i “Mai morti”. Uno scampato alla strage racconta che mentre passava vicino a lui, nascosto in un fosso, uno dei fascisti chiese in “carrarino”: «O Gatton, quali sono gli ordini?». La risposta fu: «Quanti ne vedete tanti ne ammazzate».

La brutalità dei fascisti

I sopravvissuti raccontano che i brigatisti neri si distinsero per crudeltà. Negli atti di uno dei processi si legge che uno di essi, pochi giorni dopo la strage, portò suo padre e suo fratello all’osteria per brindare alla donna che aveva sventrato. Al loro rifiuto ne seguì un tafferuglio. Forse bisognerebbe rammentarli questi fatti a chi ancora oggi fatica a dichiararsi anti-fascista. Le ragioni del “rastrellamento” non sono del tutto chiare. Alcune ricostruzioni fanno riferimento all’uccisione di un ufficiale tedesco, avvenuta pochi giorni prima nei pressi di Vinca. La tesi più plausibile è che fosse da collegare all’intensa attività partigiana presente nella zona delle Apuane e che servisse da avvertimento per la popolazione locale, al fine di mettere in sicurezza i lavori di rafforzamento della linea gotica.

La strage dimenticata

Le vittime furono più di 170. Si tratta, quindi, solo apparentemente di una “strage minore”, che però è stata a lungo trascurata. Fino ad anni recenti quando, grazie al lavoro di alcuni storici e di sopravvissuti alla strage, è ricominciata l’opera di trasmissione della memoria. Per fare anche un po’ di giustizia riparativa. Perché solo in pochi hanno pagato poco per i delitti commessi. Nessuno degli 11 fascisti condannati per la strage ha passato in carcere più di 7 anni. Il colonnello Lodovici è stato assolto per insufficienza di prove. Come è risaputo, molti dei fascicoli sui crimini di guerra compiuti in Italia sono stati a lungo occultati nel cosiddetto “armadio della vergogna”. Solamente nel 2009, il tribunale militare di Roma ha emesso nove condanne all’ergastolo, puramente simboliche, nei confronti di militari tedeschi coinvolti nella strage di Vinca. Il Monco, condannato all’ergastolo nel ’51, è stato amnistiato nel 1985 dal governo Craxi. Tornato in libertà, dichiarò a un settimanale austriaco che non sentiva il bisogno di giustificarsi di niente.

Il festival della memoria

Quello che è certo è che la paura che “tornassero”, a Vinca, è durata a lungo. Molte delle promesse di risarcimento e rilancio fatte ai suoi abitanti sono andate disattese. Si è consumata così, nuovamente, una lunga agonia. Dei 1200 abitanti oggi ne rimangono poco più di ottanta. Ma la vita resiste e nel mese di agosto il paese si ripopola. Sono gli emigranti e i loro discendenti a tornare in questo piccolo borgo delle Apuane, incorniciato da belle montagne e boschi di castagni. Perché il ricordo dei luoghi e degli eventi resiste. E sopravvive grazie anche ad un progetto - Vincanta la memoria che resiste - lanciato nel 2023 da alcune associazioni culturali, in collaborazione con gli abitanti di Vinca. Questo progetto, coordinato da Michelangelo Ricci, poeta e regista di origine lunigianese, ha delle mire ambiziose: creare un laboratorio artistico per promuovere la rinascita di Vinca «all'insegna della memoria e della cultura di pace». Il festival, realizzato nel 2023, ha portato oltre mille persone nelle strade del paese, ad assistere ad uno spettacolo che ha ripercorso i fatti del 1944 attraverso storie e canzoni di cavatori, pastori e contadini. Quest’anno è stato realizzato un laboratorio-campus in cui diversi giovani, affiancati da artiste e artisti professionisti e dagli abitanti, hanno contribuito a realizzare un docufilm sull'eccidio (La Dea di Pietra) e una tre-giorni di spettacoli multimediali tra le strade del borgo (OperaVinca). L’idea è di rendere tutto ciò permanente. Per questo è stato lanciato un crowdfunding. Per questo c’è bisogno, oltre che del sostegno degli amministratori regionali e locali, anche del nostro contributo. Perché Vinca sopravviva. Perché chi ha cercato di ucciderla non torni più.

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