La procura di Verbania ha interrogato anche vari operatori dell’impianto della funivia Stresa-Mottarone. Tutti confermano che l’ordine di inserire i forchettoni è venuto da Tadini che attualmente si trova ai domiciliari. Tadini ha confessato ma anche detto che i vertici della funivia sapevano
A circa dieci giorni dall’incidente alla funivia Stresa-Mottarone in cui hanno perso la vita 14 persone gli inquirenti hanno ascoltato anche gli operatori dell’impianto oltre ai già tre noti Gabriele Tadini (il caposervizio), Luigi Nerini (il proprietario) ed Enrico Perocchio (il direttore dell’esercizio). Quasi tutti gli operatori sentiti hanno fornito agli inquirenti una versione simile dei fatti: l’ordine di inserire il forchettone che bloccava i freni d’emergenza della cabina è venuto direttamente dal caposervizio Tadini.
Le testimonianze
Emanuele Rossi, uno degli operai in servizio il 23 maggio, il giorno dell’incidente, ha spiegato agli inquirenti che i forchettoni «vengono utilizzati per le operazioni di manutenzione e nella stazione finale a monte la sera quando chiudiamo l’impianto». Ma a rilasciare l’autorizzazione è il caposervizio responsabile, ovvero l’ingegnere Gabriele Tadini. Rossi ha anche aggiunto che la sera prima dell’incidente i forchettoni che hanno bloccato i freni di emergenza sono stati inseriti dal collega Massimo Ogadri. «È stato Tadini ad ordinare di metterli – dice – l’istallazione è avvenuta già dall’inizio della stagione di quest’anno, esattamente il 26 aprile».
Una decisione che stando alle prime ricostruzioni è stata presa per ovviare a un problema tecnico della centralina che causava continui disservizi e rallentamenti. Una problematica che secondo il direttore dell’esercizio Perocchio si sarebbe potuta risolvere fermando l’impianto per uno o due giorni di lavoro. Ma così non è stato. «Tadini ha ordinato di far funzionare l’impianto con i ceppi inseriti anche se non erano garantite le condizioni di sicurezza necessarie» ha detto Rossi.
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C’è un operatore, però, che oltre a confermare il ruolo di Tadini ha dichiarato agli investigatori di Verbania che stanno indagando sul caso che anche i vertici erano a conoscenza dell’inserimento dei forchettoni. «Prima che si rompa un cavo traente o una testa fusa, ce ne vuole» gli aveva detto il caposervizio, al quale non aveva replicato essendo il suo responsabile. Tuttavia, era una decisione che «era stata condivisa e avallata da loro» dice Coppi facendo riferimento al proprietario dell’impianto, Luigi Nerini, e al direttore dell’esercizio Enrico Perocchio. Questi ultimi invece hanno sempre negato di essere a conoscenza dell’inserimento dei forchettoni alla cabina.
In un’intervista rilasciata a La Stampa Perocchio ha detto: «Se avessi saputo non avrei avallato quella scelta. Lavoro negli impianti a fune da ventuno anni e so che quelle sono cose da non fare mai, per nessuna ragione al mondo». Ma Coppi è di diverso parere: «Ho udito più volte Tadini discutere animatamente al telefono con Perocchio e Nerini poiché questi ultimi due erano contrari alla chiusura dell’impianto, nonostante la volontà di Tadini di fermarlo. Dopo alcune telefonate l’ho visto molto turbato e demoralizzato» racconta. L’operatore aggiunge anche che «con la stagione appena ricominciata dopo il Covid una chiusura sarebbe stata una catastrofe. Tadini aveva ricevuto talvolta il permesso di fermarsi, ma quando c’era brutto tempo».
Gli omissis e le dichiarazioni del gip
I verbali dell’interrogatorio di Massimo Ogadri sono coperti da omissis, ma emerge chiaramente un passaggio in cui racconta agli inquirenti che lo scorso anno Perocchio ha detto a Tadini che non voleva i forchettoni inseriti sulla cabina. Il 29 maggio il giudice per le indagini preliminari, Donatella Banci Buonamici, non ha convalidato il carcere per Perocchio e Nerini e ha disposto i domiciliari di Tadini, accogliendo le richieste dei tre legali.
Alla procuratrice Olimpia Bossi, Tadini ha ammesso le sue colpe ma ha anche detto che tutti sapevano dei forchettoni. Lo aveva riferito ai vertici. Proprio per questo la procura di Verbania sottolineava che qualora i tre venissero rilasciati ci sarebbe stata la possibilità di un rischio di fuga e di inquinamento delle prove. Ma il gip non è d’accordo con questa tesi. «Il pericolo di fuga non esisteva per le motivazioni per cui l’ho detto. Non ho ritenuto per due persone la sussistenza di gravi indizi, non perché non abbia creduto a uno ma perché ho ritenuto non riscontrata la chiamata in correità» ha detto la giudice Donatella Banci Buonamici ai giornalisti. «La chiamata in correità in fase cautelare deve essere dettagliata e questa non lo era ed era smentita da altri risultati» ha aggiunto.
Le indagini continuano e gli operatori dell’impianto possono fornire nuovi indizi per far luce sull’incidente.
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