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Giovanni Brusca scarcerato dopo 25 anni. Confessati, fra i cento e i duecento omicidi. «Ancora oggi non riesco a ricordare tutti, uno per uno, i nomi di quelli che ho ucciso», dichiarava in uno dei primi verbali di interrogatorio davanti al procuratore capo di Palermo Gian Carlo Caselli e ai sostituti Guido Lo Forte e Alfonso Sabella.
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Bene, ne aveva impressi nella memoria solo due. Lui appostato sulla collinetta di Capaci con il telecomando in mano. E sempre lui che dà un altro ordine a Giuseppe Monticciolo: «Liberati du canuzzu».
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Liberati del cagnolino. Il cagnolino è un bambino di undici anni, prigioniero da settecentosettantanove giorni. Giuseppe Di Matteo è una larva, non pesa neanche trenta chili. Monticciolo lo mette con la faccia al muro e lo solleva da terra, il bimbo non capisce, non fa resistenza, nemmeno quando sente la corda intorno al collo. Il suo è appena un sussurro: «Mi portate a casa?». E poi il figlio del pentito Santino Mezzanasca Di Matteo viene squagliato nell’acido. Del bimbo restano solo i dentini. È molto “tecnico” Giovanni Brusca quando ricostruisce quest'altra “disgrazia”.
Timorata di Dio e dama di San Vincenzo, la madre andava dicendo in giro «che l’aveva cresciuto bene». Fra i suoi figli era il preferito, per quello che aveva fatto e per quello che faceva. Perché, almeno ufficialmente, non aveva ancora aperto bocca. «Non è un vigliacco e quindi non sarà mai un pentito, la verità è che la legge non è uguale per tutti: i privilegi toccano solo agli infami», urlava Antonina Brusca a pochi passi dalla piazza del paese. Era infastidita dal «can can, da tutta questa pubblicità per la disgrazia, i morti si ricordano in silenzio».
La “disgrazia”, così la chiamava. La disgrazia del 23 maggio 1992, la bomba, l’uccisione di Giovanni Falcone. Nel quarto anniversario della strage, nel 1996, ero andato a San Giuseppe Jato perché i fratelli Brusca mostravano qualche segno di cedimento, parlavano e non parlavano, dicevano e non dicevano, ammettevano, ritrattavano, sussurravano qualcosa e poi negavano.
La madre raccontava di Giovanni: «Lo descrivono come una belva ma è cresimato e ha frequentato l’Azione cattolica, tirato su con la religione, se lo Spirito santo illuminerà la mente di certi giudici comunisti Giovanni non sarà mai condannato all’ergastolo». Un piccolo ritratto di famiglia. Ne avevo sentito un altro qualche anno prima dentro l’aula bunker dell’Ucciardone, all’udienza durante la quale aveva reso testimonianza Tommaso Buscetta. Chi sono i Brusca, chiedeva il presidente? Risposta: «La gente più abietta del mondo dai tempi di Nerone». Il più famoso fra i fratelli oggi è Giovanni, nato il 25 febbraio 1957 e scarcerato dopo venticinque anni.
Scia di sangue
Ha confessato fra i cento e i duecento omicidi. «Ancora oggi non riesco a ricordare tutti, uno per uno, i nomi di quelli che ho ucciso», ha dichiarato in uno dei primi verbali di interrogatorio davanti al procuratore capo di Palermo Gian Carlo Caselli e ai sostituti Guido Lo Forte e Alfonso Sabella. Bene, ne ricordava solo due. Lui appostato sulla collinetta di Capaci con il telecomando in mano. E sempre lui che dava un altro ordine a Giuseppe Monticciolo: «Liberati du canuzzu». Liberati del cagnolino. Il cagnolino era un bambino di undici anni, prigioniero da 779 giorni. Giuseppe Di Matteo era una larva, non pesava neanche trenta chili. Monticciolo lo aveva messo con la faccia al muro e lo sollevava da terra, il bimbo non capiva, non faceva resistenza, nemmeno quando ha sentito la corda intorno al collo. Altri due uomini lo tenevano per le braccia e per le gambe.
E poi il figlio del pentito Santino Mezzanasca Di Matteo fu squagliato nell’acido. Del bimbo restavano solo i dentini. È molto “tecnico” Giovanni Brusca quando ricostruisce quest’altra “disgrazia”. Spiega: «Noi avevamo l’abitudine di mettere sempre da parte l’acido, anche se non c’era la necessità immediata di utilizzarlo. Ci vogliono cinquanta litri di acido per disintegrare un corpo in una media di tre ore. Il corpo si scioglie lentamente, rimangono i denti della vittima, lo scheletro del volto si deforma. A quel punto si prendono i resti e si vanno a buttare da qualche parte. A San Giuseppe Jato li andavamo a buttare nel torrente. Ai palermitani che ci sfottevano perché eravamo contadini, rozzi, noi rispondevamo: e voi allora, bella acqua che bevete a Palermo...». L’acqua del torrente di San Giuseppe Jato finisce in una diga, quella che disseta tutta la città.
“U’ verru”
Non ho mai saputo perché Giovanni Brusca venisse chiamato “u’ verru”, che in siciliano è il maschio del maiale. Ho chiesto a poliziotti e a magistrati ma tutti mi hanno dato vaghe e poco convincenti spiegazioni. Da quel che ho intuito, Giovanni Brusca non credo che godesse di particolare “prestigio” dentro l’associazione Cosa Nostra, visto quasi come un “raccomandato” per il peso che ha sempre avuto la sua famiglia. Il loro paese è San Giuseppe Jato, trentuno chilometri da Palermo e diciotto da Corleone.
Gli abitanti sono quasi novemila, di Brusca nel 1996 se ne contavano novantacinque e oggi solo quindici. Da molti anni non c’è più quella scritta che, in un giorno di agosto di un quarto di secolo fa, apparse sul muro di una delle principali vie del paese: “Brusca 24 carati“. La derisione per quelli che, più Corleonesi dei Corleonesi, avevano cominciato a “cantare”. Erano da tre generazioni i padroni di San Giuseppe Jato. Il capostipite era Emanuele Brusca, uno che sapeva tanto di Portella della Ginestra, undici morti e trentasette feriti il 1° maggio del 1947, ricordata come la prima strage di stato.
A qualche ora dal massacro gli assassini al soldo del bandito Giuliano erano tutti in contrada Kaggio, nel casolare dei Brusca. Dopo Emanuele è venuto Bernardo, il più fedele alleato di Totò Riina. Per festeggiare un omicidio lo “zio Totò” andava sempre a trovarlo nelle campagne di San Giuseppe Jato, dove sotto il tavolo c’erano casse di champagne. Il vecchio Bernardo brindava alla morte con il Monsciandò. Diceva di lui Buscetta: «Bernardo si può versare addosso un litro di acqua di colonia ma puzzerà sempre come un caprone». E dopo Bernardo i suoi tre figli: Emanuele come il nonno, Enzo e Giovanni u’ verru.
L’hanno preso il 20 maggio del 1996 lontano da casa, dall’altra parte della Sicilia, fra Agrigento e Favara, in una zona di mare a ridosso di Cannatello dove si era rifugiato con sua moglie Cristiana e i loro figli. Un anno prima era scivolato in trappola anche Leoluca Bagarella, il cognato di Totò Riina. Cosa Nostra corleonese cadeva a pezzi. Poi l’estenuante tira e molla. Si pente o non si pente? Dice la verità o mente? Depista o non depista? Per saperne qualcosa di più, anche sulla sua personalità, chiedono ad altri collaboratori.
Uno è Angelo Siino, pure lui di San Giuseppe Jato, il “ministro dei Lavori pubblici” di Totò Riina, frequentatore dei salotti palermitani, appassionato di caccia al cinghiale, amante dei buoni sigari, pilota di rally. Ricorda di Giovanni Brusca: «Mi sentivo suo amico, lo accompagnavo nei migliori negozi di abbigliamento di Palermo, dal coiffeur, l’avevo ripulito...Era diventato la mia ombra, lo presentavo come mio cugino, avrei voluto plasmarlo a mia immagine e somiglianza ma...». C’è sempre un “ma” per tutti, quando parlano di lui. Pentito ma, sicario ma, scarcerato ma.
I racconti
Eppure ha collaborato con la giustizia, se ha detto tutto nessuno lo saprà mai con certezza e comunque le sue deposizioni sono servite a ricostruire dinamiche e contesto di delitti eccellenti e stragi. Poi la trattativa stato-mafia vista dal di dentro, dall’interno di Cosa Nostra, il “papello” mai trovato di Totò Riina, le accuse contro Marcello Dell’Utri, i retroscena dell’attentato contro l’ex ministro Calogero Mannino, le testimonianze al processo del sette volte presidente del Consiglio Giulio Andreotti. E il famoso bacio fra il divino Giulio e Totò Riina, raccontato da Balduccio Di Maggio? «Mai venuto a conoscenza di un bacio fra quei due», disse Brusca, spazientito dai dettagli forniti dal suo “concorrente” diretto alla guida del mandamento di San Giuseppe Jato. Non si sono mai amati.
Tant’è che nel 1997, dodici mesi dopo il pentimento di Giovanni e quattro anni dopo il pentimento dell’altro, una squadretta ai comandi di Balduccio tornò a San Giuseppe Jato per far fuori tutti gli uomini del verru. I reparti speciali dei carabinieri non chiusero un occhio ma due – «Uso dinamico dei collaboratori di giustizia», la tagliente definizione è del magistrato Alfonso Sabella – con la procura di Caselli troppo lenta e distratta a capire che stava succedendo.
Fu proprio Sabella a scoprire il “ritorno dei pentiti” e ordinare l’arresto di Balduccio e di Gioacchino La Barbera e Santino Mezzanasca Di Matteo. Vicende che riemergono da un passato per certi versi ancora oscuro. Una volta Giovanni Brusca sembra lucido: «Dopo l’attentato di Capaci si verificarono alcuni fatti che sono in qualche modo, dal mio punto di vista, la causale dei delitti e delle stragi successive. Ho avuto un paio di incontri con Riina dopo l’uccisione del dottor Falcone. Mi disse subito, molto soddisfatto: “Si sono fatti sotto. Gli ho presentato un papello grande così con tutte le nostre richieste”...». Un’altra volta è più confuso e nega ogni coinvolgimento di mandanti altri. Negli ultimi anni cerca di far parlare di sé il meno possibile. E di San Giuseppe Jato, del vecchio padre Bernardo, di Totò Riina e forse anche di sua madre Antonina. Mi viene in mente un’altra frase della donna, gridata in quel lontano 1996 nel suo paese: «I pentiti hanno detto che mio figlio stava su quella collinetta sull’autostrada per schiacciare il telecomando. Come prova hanno raccolto i mozziconi di sigaretta per fare l’esame del Dna, ma che prove è? Mio figlio non ha mai fumato». Mai, era e rimane un bravo ragazzo Giovanni Brusca.
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