L’ex senatore del M5s ed ex conduttore televisivo sarà uno dei pochi politici a votare contro il governo di Mario Draghi. È l’ultimo capitolo di una storia personale che si intreccia con la pulsione euroscettica che sempre riaffiora nel dibattito
- La carriera di Paragone inizia con il suo approdo alla Padania, un giornale che vuole far diventare «contro l’Europa».
- Poi il suo antieuropeismo si affievolisce e ritorna solo nella seconda parte della sua carriera televisiva.
- Oggi Paragone va in controtedenza, ma riuscirà a rimanere legato al suo antico ideale, o lo scaricherà, come hanno fatto tutti?
«Mario Draghi rappresenta l’Unione europea e per questo è distante anni luce dalle mie posizioni».
In un panorama politico in cui quasi tutte le forze politiche, mediatiche e culturali sembrano aver accolto l’arrivo dell’ex presidente della Bce come quello di un salvatore, parlare con l’ex senatore del Movimento 5 stelle ed ex conduttore televisivo Gianluigi Paragone rappresenta di sicuro un cambio di prospettiva.
«Draghi sarà un fuoriclasse ma è un fuoriclasse della squadra avversaria - dice oggi – Bravissimo, ma a portare avanti il modello neoliberista che io respingo totalmente».
Paragone è un euroscettico convinto. Nel 2019 è uscito dal Movimento 5 stelle per non votare una manovra che giudicava troppo sottomessa alle regole di bilancio europee e nel luglio dell’anno scorso ha fondato un partito, Italexit, il cui punto principale di programma è l’uscita dell’Italia dall’euro. Quando la prossima settimana il parlamento sarà chiamato a votare la fiducia al governo Draghi, Paragone, insieme a Fratelli d’Italia e forse a qualche senatore della sinistra radicale, sarà tra i pochissimi a votare contro.
La sua non è soltanto la storia di una figura politica e mediatica eccentrica, costantemente in bilico tra eccessi, genio e follia. È anche una storia dell’euroscetticismo in Italia, una corrente sotterranea, vecchia quasi quanto l’Europa stessa, che continua a riaffiorare, anche quando, come oggi, siamo convinti che sia sparita.
Varese caput mundi
Gianluigi Paragone è nato a Varese nel 1971, figlio di Luigi Paragone, originario della Campania, e importante agente di Seat Pagine Gialle, oltre che consigliere d’amministrazione di Sipra, la concessionaria pubblicitaria della Rai. La carriera giornalistica di Paragone è iniziata nel quotidiano cittadino la Prealpina ed è decollata quando, a soli 29 anni, è diventato direttore dei servizi di attualità della televisione locale, Rete 55.
Erano gli anni in cui l’ascesa della Lega aveva trasformato la sonnolenta cittadina di 80mila abitanti a nord di Milano in un centro della politica nazionale. Quando nel 1993 a Vrese la Lega elesse il suo primo sindaco, in città era arrivata persino la Cnn.
«Varese in quegli anni era diventata la Roma del nord, i ministri venivano qui, a casa di Bossi, per decidere le sorti dei governi nazionali», racconta Alessandro Montanari, amico di lunga data e storico autore dei programmi televisivi di Paragone.
Da direttore di Rete 55, Paragone si occupò di fare da ponte tra la proprietà e il partito che nella provincia aveva la sua storica roccaforte.Il suo contatto principale nella Lega era il figlio del presidente della cooperative dei pescatori del lago di Varese, che Paragone aveva conosciuto scrivendo una serie di articoli sull’inquinamento causato da alcune industrie: Giancarlo Giorgetti.
Fu lui, insieme ad altri varesotti che facevano parte di quello che già allora veniva chiamato il “cerchio magico”, a proporre al leader della Lega di scegliere il giovane giornalista come nuovo direttore del quotidiano di partito, La Padania.
Un giornale contro l’Europa
Quando Paragone accettò l’incarico, la breve parentesi storica in cui la Lega era stata considerata un partito post ideologico, o addirittura una «costola della sinistra», era terminata. Nel 2005, il partito occupava saldamente il ruolo di formazione più a destra dell’intero arco parlamentare. Bossi aveva allineato il partito alle posizioni del leader estremista austriaco Jörg Haider e attaccava omosessuali, migranti e burocrati europei ad ogni comizio. Ai congressi di partito, i banchetti si erano riempiti di libri del filosofo della nuova destra francese Alain de Benoist, mentre il sogno di un europeismo nordista, con il nord accoppiato alla Germania e il sud lasciato a sé stesso, era tramontato di fronte all’entrata di tutto il paese nella moneta unica.
La Padania sarebbe diventato il giornale che incarnava queste nuove idee, condite con le trovate creative e l’estro polemico di Paragone. «Farò un giornale contro l’Europa», aveva detto il nuovo direttore in una delle sue prime interviste. Oltre all’Europa, l’elenco dei nemici includeva anche musulmani, rom, cinesi e associazioni lgbt. Queste ultime ricevevano una particolare attenzione da parte del giornale, con titoli ammiccanti come “La favola di finocchio” o “Misurare il pisello” (che se la prendeva contemporaneamente con la comunità omosessuale e con le regole della Commissione europea in materia di ortaggi).
Ci dice probabilmente qualcosa sulla direzione in cui si è mossa la nostra società il fatto che mentre i toni nei confronti di stranieri e minoranze da allora non sono cambiati, oggi nemmeno i quotidiani più radicali probabilmente riproporrebbero i titoli e gli argomenti della Padania contro la comunità lgbt. Paragone comunque non rinnega quanto scriveva all’epoca e continua a sostenere che gli omosessuali non siano più discriminati di altre categorie. Paragone decise di iniziare a distribuire il giornale anche al centro, al sud e nelle isole, una strategia sostenuta da Bossi, che proprio in quegli anni stava tentando l’ennesimo “sfondamento a sud” della sua carriera. Entrambe le operazioni si rivelarono un fallimento. La riforma federalista venne respinta ad un referendum e a fine 2006 la Padania tornò a essere distribuita soltanto al nord.
La Lega era in crisi e nel partito si respirava aria da resa dei conti. Paragone iniziò a guardarsi intorno. Si era fatto conoscere come una delle penne più affilate del centrodestra, il quotidiano Libero lo aveva assunto come editorialista e i talk show politici lo invitavano regolarmente, spesso come rappresentate ufficiale del partito nella trasmissione. Mentre il clima nella Lega si faceva sempre più ostile e anche il rapporto con Bossi si raffreddava, Paragone annunciò il suo abbandono della direzione.
«Se fossi rimasto tre anni alla Padania, invece che per poco più di un anno e mezzo come ho fatto, la mia carriera sarebbe finita», dice oggi. Anche il suo amico, Montanari, racconta che avere un’esperienza di lavoro alla Padania sul curriculum è sempre stato un handicap nella sua carriera. «Quando feci l’esame da giornalista, la commissione d’esame sembrava un plotone d’esecuzione», racconta. Paragone, per sua fortuna, non aveva bisogno di mandare in giro il curriculum.
Il Santoro di centrodestra
Per circa due anni, Paragone divenne uno degli editorialisti di punta di Libero, il quotidiano diretto da Vittorio Feltri e di proprietà dell’imprenditore della sanità Antonio Angelucci (che da lì a poco sarebbe stato eletto senatore con il partito del Popolo della libertà). Paragone scriveva quasi un articolo al giorno e non aveva perso il suo talento per la scrittura creativa. Un suo articolo che descriveva come il governo Prodi fosse sopravvissuto a un voto di fiducia grazie all’assenza di un senatore si intitolava “Una pipì salva Prodi”. Una frecciata al suo antico protettore, Umberto Bossi, tornato a parlare di secessione del nord, aveva come titolo: “Nonno Bossi gioca con la secessione”.
Ma se lo stile era lo stesso, gli argomenti erano cambiati. Sparita l’Unione europea, gli attacchi contro i diritti degli omosessuali e quelli più incattiviti contro gli stranieri, nel suo periodo a Libero Paragone si concentrava sulle polemiche politiche quotidiane e sui regolamenti di conti interni al centrodestra. Non era il solo. Con Bossi che non si era più ripreso completamente dall’ictus che lo aveva colpito nel 2004 e Berlusconi concentrato soltanto sul far cadere il governo Prodi, era l’intero centrodestra ad apparire in crisi di visione e di ideali.
Le situazione non cambiò quando nel 2008, dopo una campagna elettorale spenta e priva di guizzi, Berlusconi vinse nuovamente le elezioni e un centrodestra con le idee ancora poco chiare ritornò al governo. La vittoria era stata completa, dal punto di vista elettorale, ma il nuovo governo aveva una spina nel fianco: il conduttore televisivo Michele Santoro e il suo programma AnnoZero, che su Raidue faceva il pieno di ascolti con i suoi attacchi senza quartiere a Berlusconi e alla sua coalizione. Paragone, giovane, carismatico e abile nei dibattiti, sembrava l’uomo perfetto per diventare l’anti Santoro di centrodestra.
Paragone venne chiamato in Rai nel 2009 dal direttore di Raidue Antonio Marano, un pugliese trapiantato a Varese che era passato anche lui per Rete 55. Il primo programma che gli venne affidato si intitolava “Malpensa Italia” ed era un bizzarro talk show registrato in una sala dell’aeroporto di Malpensa, il grande hub internazionale a pochi passi dalla sua Varese.
Fallito lo sbarco al sud con il federalismo, la Lega senza una guida forte era tornata ancora a una volta al rassicurante tema dell’autonomismo. «Il nazionalismo è morto sostituito dal regionalismo», diceva il direttore di Rai Due Marano e Malpensa Italia era una trasmissione esplicitamente “nordista”. Il programma non fu un grande successo di ascolti e come ammise candidamente Paragone in un’intervista dell’epoca: «Non è stato facile far capire che l’argomento non era l’aeroporto o il trasporto aereo».
Dalla stagione successiva, Paragone condusse “L’ultima parola”. Come il precedente, era un talk show politico in seconda serata, ma aveva un taglio più semplice e meno barocco e si adattava meglio a mettere in risalto Paragone e le sue qualità di conduttore. Inoltre, erano cambiati i tempi. Era arrivata la grande crisi economica del 2008 e la politica non era più divisa soltanto tra chi era pro e chi contro Berlusconi. Bisognava decidere come raccontare un paese prostrato dalla recessione, stabilire di chi fosse la colpa e proporre nuove soluzioni.
Parola alla Gabbia
È stato in questo periodo Paragone ha cominciato a interessarsi sul serio di uscita dall’euro. In quegli anni, era un tema che stava acquistando sempre più popolarità grazie a una serie di personaggi cresciuti su internet. Montanari e Paragone lo hanno portato in televisione. «Tra la prima e la seconda stagione, L’ultima parola si è trasformato da talk show politico a programma economico», dice Montanari. E nel farlo, ha cominciato a segnare un distacco dai suoi vecchi referenti politici.
Con il centrodestra al governo e la crisi economica che si rivelava sempre più profonda e destabilizzante per i conti pubblici italiani, l’euroscetticismo non era di moda nel centrodestra. Come riassume Montanari. «Mentre Berlusconi diceva che i ristoranti erano pieni e la Lega parlava di macroregioni, noi ospitavamo Claudio Borghi e Alberto Bagnai».
Per Paragone, il centrodestra di quegli anni era ormai un contenitore vuoto, che non si era accorto della sofferenza e della voglia di cambiamento maturata nel paese. I temi importanti per il pubblico erano divenuti il rapporto con l’Europa, la polemica contro banche e finanza, quella contro la casta e i politici corrotti. Berlusconi e i suoi processi sembravano aver fatto definitivamente il suo tempo. Quando nell’autunno del 2011 Paragone disse che le promesse di Berlusconi erano un “coniglio spelacchiato”, il divorzio era ormai completo.
I leader del centrodestra accusarono Paragone di voler salire sul carro dei vincitori. Non era vero. Berlusconi perse la guida del governo, ma sostenne il suo successero, Mario Monti, al quale Paragone dal suo programma fece una durissima opposizione.
Con il fiuto che lo ha sempre contraddistinto, Paragone si stava invece avvicinando a una nuova formazione sul cui futuro al governo all’epoca nessuno avrebbe scommesso. In una puntata dell’aprile 2012 fece sedere i suoi ospiti politici tra il pubblico e invitò in platea un gruppo di giovani attivisti del Movimento 5 Stelle. Tra loro c’erano tre futuri ministri e sottosegretari del Movimento 5 stelle: Vito Crimi, Alfonso Bonafede e Laura Castelli.
È stato in questo periodo che Paragone si è “destrutturato”, come dice lui stesso, abbandonando camicia e cravatta, iniziando a presentarsi in maniche di camicia o con un giubbotto di pelle. Un brillante gli è comparso all’orecchio e i suoi polsi sono riempiti di braccialetti. Ha cominciato a introdurre ogni puntata con una canzone-editoriale, in cui suonava e cantava accompagnato da un gruppo chiamato gli Skassakasta (Paragone ha sempre avuto un certo gusto per la musica demenziale: il suo primo gruppo musicale a Varese si chiamava Babbi di minchia).
I vertici dell’azienda volevano liberarsi di lui e nel 2013 gli proposero la conduzione di un programma musicale, dice oggi. Paragone respinse l’offert e passò a La7, dove creò la Gabbia: il successore spirituale de L’ultima parola. Chiassosa, becera, populista e complottista sono tutti aggettivi che sono stati usati spesso per descrivere il programma andato in onda per quattro anni. Per Montanari la trasmissione è stata «uno schiaffo all’ideologia della sinistra riformista del rigore». A differenze de L’ultima parola, La Gabbia non è stata un programma di grande successo. La responsabilità, secondo Paragone e Montanari, è da attribuire soprattutto al pubblico de La7, formato da un ceto medio istruito e cittadino, poco incline ad apprezzare i loro argomenti.
Mentre La Gabbia zoppicava di stagione in stagione, Paragone approfondiva il suo rapporto con il Movimento 5 Stelle. «Li ho visti crescere - dice oggi – intervistandoli e parlando con loro ho capito il potenziale e la forza dirompente che aveva il partito». Paragone ha costruito un solido rapporto con Alessandro Di Battista e Davide Casaleggio, mentre ha conosciuto Di Maio soltanto quando nel 2017 è stato chiamato a presentare la festa partito a Rimini, la stessa che ha incoronato Di Maio capo del partito.
Pochi mesi dopo quell’evento, Di Maio ha ricontattato Paragone e gli ha offerto una candidatura sicura nel listino proporzionale del Senato. Paragone è stato eletto senatore nel marzo del 2018 ed è rimasto nel partito per poco più di un anno. Ambizioso e narciso, Paragone scalpitava per farsi notare. La sera delle elezioni era con il gruppo ristretto che assisteva allo spoglio accanto al capo politico Luigi Di Maio. Durante le trattative per la formazione del governo era tra gli scout che si occupavano di costruire un ponte con la Lega.
Ma Di Maio non vedeva grandi spazi nel partito per l’incontenibile Paragone e lui stesso, non è riuscito a raggiungere l’obiettivo che gli era più caro: la presidenza di una nuova commissione di inchiesta sulle banche. Quando nell’agosto del 2019 il Movimento 5 stelle si è alleato con il Pd, Paragone si è astenuto nel voto di fiducia e dicembre, quando si trattata di votare una manovra economica che Paragone definisce scritta da Bruxelles, ha votato contro. Pochi giorni dopo è stato espulso dal Movimento 5 stelle.
Multiforme
Entrato in Parlamento quando gli euroscettici erano maggioranza assoluta, oggi Paragone sembra un soldato giapponese abbandonato nella giunga e che nonostante tutto rifiuta di arrendersi. Trovarsi soli, in politica, può essere un’esperienza elettrizzante oppure spaventosa. Può significa praterie in cui far crescere il proprio consenso, o può essere l’indizio di aver sbagliato scelte e di trovarsi magari con gli argomenti giusti, ma di sicuro nel momento sbagliato.
Paragone spera che il suo caso sia il primo e per ora non dà segni di voler rinunciare alla sua linea. Dal lancio del suo partito, lo scorso luglio, è in un tour quasi continuo in giro per l’Italia, per incontrare attivisti e possibili sostenitori. «Il governo Draghi ha portato molta acqua al mio mulino, ma ora il mulino bisogna costruirlo», dice. Creare un vero partito è complicato. Servono fondi, attivisti e sostenitori. Paragone dice di voler presentare un suo candidato già alle elezioni suppletive che si svolgeranno a Siena, in primavera.
Avrà una possibilità? Il professor Daniele Albertazzi, politologo dell’università di Birmingham e osservatore attento della politica italiana è scettico. «A seconda della legge elettorale che avremo, ci potrebbe essere uno spazio. Ne abbiamo avuti tanti di piccoli partiti personali in Italia e ce ne saranno altri in futuro. Ma politicamente, a mio avviso, non c’era spazio neanche prima, figuriamoci adesso». Se c'è una cosa che la stessa storia di Paragone dimostra, infatti, è che «L’euroscetticismo in Italia è sempre stato un tema da campagna elettorale e nulla più»: un ideale adottato quando faceva comodo, e sempre scaricato non appena era conveniente.
Per gli amici di Paragone, la sua continua battaglia contro l’euro è quindi la prova che si tratta di una persona che crede davvero nei suoi ideali. Ma negli anni Paragone ha flirtato con federalismo, euroscetticismo, berlusconismo, grillismo e nazionalismo: una carriera troppo multiforme per poterla contenere in un comodo santino euroscettico.
Oggi Paragone ha 49 anni, talento comunicativo, fiuto per gli umori dell’elettorato a una popolarità che gli arriva da anni di televisione. Sembra scontato che ne sentiremo ancora parlare, ma se per la battaglia contro l’euro o per qualcosa di completamente diverso, forse, non lo sa nemmeno lui.
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