Il governo che ha affossato il salario minimo non considera i milioni di lavoratori con uno stipendio da fame. Contratti fatti apposta per ridurre i compensi, esternalizzazioni, bugie. «C’è paura, è una forma di ricatto»
L’Italia ha scelto di andare avanti senza una legge sul salario minimo. In realtà gli italiani volevano una svolta normativa simile: secondo gli ultimi sondaggi il 70 per cento era favorevole, compreso chi appoggia il governo Meloni. Ma l’esecutivo di estrema destra, il 6 dicembre, ha votato contro la proposta che univa tutte le opposizioni (tranne Italia viva) e che fissava a nove euro lordi l’ora la cifra minima da corrispondere ai lavoratori.
Le opposizioni hanno ritirato la proposta, in Aula è scoppiata la bagarre e lì fuori, nel mondo reale, milioni di persone sono state condannate ad andare avanti con i loro stipendi da fame. Il salario minimo sarebbe stato un primo passo verso la quantomeno la considerazione della questione del lavoro povero. I lavoratori poveri sono individui che pur lavorando si trovano di fatto in una condizione di povertà.
Secondo il rapporto Caritas 2023, in Italia ci sono 2,7 milioni di lavoratori poveri, cioè l’11,5 per cento degli occupati. La media europea è dell’8,9 per cento. L’Inps aggiunge che i lavoratori che in Italia guadagnano meno di nove euro lordi l’ora, la soglia che avrebbe fissato la legge sul salario minimo, sono addirittura 4,6 milioni.
Sono soprattutto donne, giovani e persone di origine straniera a subire questa condizione, spesso impiegati da finte cooperative, ma non solo. Un esercito di persone sfruttate sul lavoro e dimenticate dai decisori politici, di cui abbiamo raccolto alcune storie.
Sfruttamento alimentare
Ndure ha 35 anni, vive in Italia da qualche anno mentre il resto della famiglia è ancora nel suo paese di origine. Lavora in un'azienda specializzata nella lavorazione di carni suine, lì dove c’è il distretto più grande d’Italia, nel modenese. Ndure si occupa del lavaggio delle cassette.
«Butto i rifiuti della carne nel cassone e poi pulisco i contenitori in cui si trovavano», racconta. Di fatto lava sangue tutto il giorno con vapori bollenti. Una parte del suo stipendio lo manda alla famiglia, per il lavoro che fa dovrebbe guadagnare di più.
Ndure non è assunto dall’azienda ma da una cooperativa, uno schema molto diffuso nel territorio dove la decisione di esternalizzare una buona parte dei lavoratori si è accompagnata a una drastica precarizzazione delle condizioni di lavoro. Guadagna circa sette euro lordi all’ora, la cooperativa gli ha fatto il contratto Multiservizi, quello delle pulizie. Il più basso.
«Abbiamo tutti questo inquadramento, qualunque sia il nostro ruolo. Eppure lavoriamo con le carni quindi dovremmo avere il contratto Alimentari», denuncia. La sua paga oraria schizzerebbe sopra i dieci euro all’ora, le lotte di Si Cobas in altre vertenze hanno portato all’applicazione di questi contratti, ma nel caso di Ndure gli scioperi finora non hanno portato a cambiamenti.
«A me il salario minimo a nove euro all’ora avrebbe cambiato le cose», prosegue Said. «Quasi tutti hanno contratti non corretti, si approfitta del fatto che le persone non sanno come dovrebbero stare le cose, altri hanno paura di perdere il lavoro perché hanno solo questo e accettano in silenzio. C’è paura, è una forma di ricatto. E se sei straniero è ancora peggio».
Said si trova nella stessa situazione, è assunto tramite cooperativa in un’azienda di carni del modenese. Lavora nel reparto cartonato, la sua giornata scorre smistando enormi bancali di carne per il confezionamento a temperature bassissime o altissime con vapori chimici. «Fino all’anno scorso avevamo il contratto logistica, quest’anno sono stato inquadrato come facchino. A loro conviene, eppure noi lavoriamo con le carni e dovremmo essere inquadrati nell’alimentare, che ci garantirebbe paghe più alte», spiega.
Said, che ha 47 anni e quattro figli, ha partecipato a diversi scioperi ma finora non ha ottenuto niente. A peggiorare le cose c’è il fatto che le cooperative per cui queste persone sono assunte spesso applicano accordi nazionali e locali con i sindacati confederali per i quali la loro retribuzione è tagliata di circa il 40 per cento, con scarsi permessi, malattie pagate solo parzialmente, festività non retribuite e flessibilità estrema.
«Siamo quasi tutti assunti dalle cooperative in queste condizioni precarie e fosche», rivela Said. «Quelli assunti dall’azienda sono pochissimi».
Precariato culturale
Lo schema delle cooperative è un problema anche per chi lavora nel mondo della cultura. Un’indagine condotta nel 2023 dall'associazione "Mi Riconosci" in Lombardia ha rivelato che solo il 5 per cento dei lavoratori ha un contratto Federculture, ossia l'associazione che rappresenta le più importanti aziende culturali del paese. Il restante 95 per cento, spesso assunto proprio da cooperative a cui viene appaltato il lavoro, è inquadrato con i meno retribuiti contratti Multiservizi, Servizi fiduciari, Cooperative sociali o Commercio.
Il risultato è che il 73 per cento dei lavoratori dipendenti nel mondo della cultura percepisce meno di otto euro lordi all’ora. «Gli appalti proposti dal Ministero hanno fatto riferimento ai capitolati che suggerivano contratti inadatti alle mansioni come quello Vigilanza privata e servizi fiduciari, che è il peggiore in circolazione», spiega Elisa, 37enne che lavora in un museo del bergamasco.
Elisa tra le varie attività fa accoglienza del turista ma la sua paga, fino all’anno scorso di poco più di cinque euro all’ora e che dopo lunghe contrattazioni ha superato i sei, resta molto lontana da quella che avrebbe se fosse inquadrata con il contratto Federculture.
Per Elisa la responsabilità di questa situazione è condivisa: da una parte c'è la cooperativa che persegue il profitto e quindi si permette di partecipare a un bando come l'ultimo con un ribasso del 33 per cento sulla base d'asta, che ricade sui lavoratori; dall'altra parte c’è la direzione regionale Museo di Lombardia che consente l'applicazione di questi tipi di contratti e anzi li segnala come contratti applicabili.
«Lo stato delle cose attuale purtroppo rende evidente che la contrattazione collettiva non è più sufficiente e che il salario minimo è necessario», denuncia Elisa. Agata, 50 anni, lavora a Roma e fa tutto quello che c’è da fare in un museo, dalla biglietteria all’accoglienza. Anche lei è assunta da una cooperativa, le hanno fatto il contratto Multiservizi delle pulizie, che prevede una paga base di sette euro lordi all’ora.
Nel suo caso, gli scatti di anzianità le hanno permesso di alzare un po’ la cifra. «Esiste un contratto di riferimento, il Federculture, che oltre ad avere una paga un po' più dignitosa definisce meglio la nostra mansione. Se io perdo il lavoro cosa dico? Che cosa ho fatto finora? Non risulta che ho operato nella cultura, che sono un’assistente o un’operatrice museale», chiosa.
«Lavoriamo fino a 11 ore al giorno, ci hanno tolto pure le pause, non c’è nemmeno il tempo per bere e andare in bagno, non abbiamo turni definiti, riceviamo paghe da fame e nemmeno risultiamo come operatori della cultura».
Ricercatori e vigilantes
Tra le categorie più a rischio lavoro povero in Italia c’è anche quella dei ricercatori. Come rivela l’XI Indagine nazionale dell’Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani (ADI), il salario netto orario è sotto gli otto euro all'ora per il 58 per cento dei dottorandi, il 70 per cento prende 1.200 euro al mese o meno e circa il 60 per cento prende la borsa minima del ministero, 1.195 euro.
Lorenzo, 30 anni, ha fatto il dottorato in ingegneria chimica a Roma, dove poi ha iniziato un post-doc con un assegno di ricerca al minimo. «I laboratori sono fatiscenti, gli studi sovraffollati e caotici, c’è un problema di soldi costante, manca il personale amministrativo e ti ritrovi a fare non ricerca scientifica ma lavoro burocratico», spiega, sottolineando anche le difficoltà a far fronte al costo della vita e agli affitti sempre più alti nella Capitale.
«Alla fine sono dovuto andare via e nel 2022 mi sono trasferito in Germania, dove le cose sono molto diverse. Oggi all’università per cui lavoro guadagno il triplo lordo rispetto a quand’ero in Italia». Altro settore, altri problemi. Anna fa la vigilante da circa dieci anni e mentre il costo della vita sale, la sua paga è sempre ferma: 5,78 euro lordi all’ora, a cui aggiunge decine di ore di straordinari che la portano a lavorare una media di dieci ore al giorno.
«Siamo al limite della sopravvivenza, è diventato difficile anche solo fare la spesa», spiega. Il settore della vigilanza è tra le categorie con il Contratto collettivo nazionale peggiore, le cifre non vengono aggiustate da anni e lo stipendio in molti casi non arriva a mille euro. Lo scorso ottobre in una sentenza storica la Cassazione ha giudicato questi salari non degni, di fatto anticipando la politica.
Qualcosa poteva cambiare con il salario minimo a nove euro. Ma la proposta di legge è stata affossata dalla maggioranza di governo e quello del vigilante, così come molti altri, resterà un lavoro povero.
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