- Con il passare dei decenni, si sono anche assottigliate e praticamente cancellate le differenze locali. Oggi a Milano come a Palermo non c’è bar che non sappia fare un Negroni, un Americano.
- Può sembrare che i cocktail che beviamo e i luoghi in cui lo facciamo esistano da sempre. In realtà è solo una decina di anni fa che smette di esserci uno scoglio insormontabile tra i bar d’hotel e quelli popolari.
- Come già in cucina, si sta ricreando un legame territoriale che parte dagli ingredienti e che, con il suo essere accattivante, si trasforma in distensione.
Attraverso i decenni, dal dopoguerra a oggi, il bere e i bar come luoghi franchi sono stati leganti importanti, necessari e seguirne la storia significa seguire la storia dell’Italia.
La storia del bere italiano è sfaccettata, complessa, labile: eppure ci sono stati sempre dei drink e dei cocktail icone, a volte del tutto italiani, a volte che guardavano all’estero.
Ma con il passare dei decenni, si sono anche assottigliate e praticamente cancellate le differenze locali. Oggi a Milano come a Palermo non c’è bar che non sappia fare un Negroni, un Americano; ma ci sono stati tempi in cui definire le mode del bere voleva dire definire territori, classi sociali e socialità tutta in maniera locale, in alcuni casi campanilistica.
Anni Sessanta
Gli anni Sessanta sono gli anni del boom economico finito e stabilizzato. E sono anche gli anni in cui, dopo una miscelazione pressoché inesistente (se non per qualche Americano nei grandi hotel o il già abbastanza famoso Negroni), il bere in Italia prende piede come momento sociale. Le star del cinema hollywoodiano che calpestavano i pavimenti dei lussuosi alberghi di via Veneto a Roma crearono non solo una domanda di cocktail mai vista prima d’ora, ma portavano anche ricette liquide mai considerate fino a quel momento. Su quest’onda cominciano a spuntare come funghi bar di stampo democratico, ma anche i primissimi cocktail bar di livello non incastonati tra le mura di un hotel: in questi anni bere non è più un servizio, è un piacere. E i bartender, che hanno viaggiato e incontrato persone da tutto il mondo, non vedono l’ora di condividere tutto.
Un periodo frenetico per il bere, che vede due mondi, quello dei bar d’hotel e quello dei bar popolari, distanti anni luce, che a volte si toccano. Come sempre succedeva fino a non molto tempo fa, le mode partono dall’alto e poi il basso se ne appropria.
«È in questi anni» dice Domenico Maura, F&B manager del Grand Hotel Parco dei Principi a Roma e storico del bar italiano, «che si guarda agli Stati Uniti in tutto e per tutto. Sono molto in voga, nelle città principali, ma soprattutto a Roma, cocktail come il Manhattan o l’Old Fashioned». E nei bar popolari, invece, si cominciano a intravedere bottiglie mai viste: in un dominio abbastanza assoluto di amari e Campari Soda, arrivano anche i primi Whiskey e Soda, con l’americanissimo bourbon, ovviamente.
Sono gli anni d’oro dell’ospitalità italiana, quelli dove il cocktail cominciava a essere preparato come si deve, ma l’arte di far sentire a proprio agio i clienti era al primo posto.
Anni Settanta
Gli anni Settanta, in Italia, sono stati anni bui: anni di stragi nere, rosse, di paura collettiva e di crisi profonde. Coperto da un velo scuro è anche il bere italiano: il cambio generazionale di bartender non si approccia con lo stesso entusiasmo del decennio precedente, la strategia di tensione colpisce tutti i livelli, da chi serve a chi beve. Sono anche gli anni in cui il divertimento comincia a spostarsi anche sul versante delle droghe.
In questo periodo a farla da padrone sono drink semplici, fatti da una base alcolica e un po’ di soda. Amari, whiskey, vermouth, bitter: tutto era condito da una spruzzata di soda senza pretese.
Sono gli anni, come ricorda lo storico dell’aperitivo Fulvio Piccinino, in cui «si torna a bere in maniera semplice e diretta soprattutto nei bar popolari. Il rito della schedina fa da aggregante il sabato ed è inevitabilmente intrecciato agli amari (a ogni zona il suo), al famoso Aperol Classico, cioè un bicchiere di Aperol con ghiaccio e una bordatura di zucchero e, nel mio caso torinese, dal Torino-Milano».
Erano gli anni in cui ci si diceva: “Vediamoci per un amaro”; gli anni in cui, nelle bottigliere, c’erano appunto solo amari e poco altro, come i bottiglioni di punch al mandarino e al rum. Ma anche gli inizi di una Milano da bere che per un decennio è stata rappresentata dal Negroni Sbagliato.
Anni Ottanta
Si ragiona per stereotipi, ma gli stereotipi esistono per un motivo. Questi sono gli anni degli yuppies all’italiana, quelli di una finta ripresa economica e dei deliri di onnipotenza. Tradotto: «È il periodo dei menu lunghissimi che potevano arrivare anche a contare 60 cocktail», come racconta il maestro Salvatore Calabrese. «Sono gli anni – continua Calabrese – in cui si può bere a tutte le ore, non ci si ferma mai. Gli anni dei Bloody Mary colmi, dei Martini Cocktail e del Bellini. Nel bar di alto livello si capiva ancora cosa bere e a che ora».
Allo stesso tempo, però, non si distaccano poi tanto dagli anni Settanta: il periodo è ancora confuso, i bicchieri spesso più capienti del necessario, ma comincia a formarsi una coscienza non tanto del bere bene, quanto dello status che il bere cocktail ti dà.
Sono gli anni della Milano da bere da una parte, con i bicchieri enormi di Sbagliato, ma anche la trasgressione dei primi locali Lgbt: per intenderci, è ora che viene inventato, a Roma, l’Angelo Azzurro. È il preludio alla prossima era, quella delle discoteche e dell’Angelo Azzurro che non si ferma più.
Anni Novanta
Sono anni ibridi, i Novanta. Anni in cui compaiono i primi cocktail bar che non sono quelli degli hotel o i classici Harry’s Bar come quelli di Venezia e Roma, ma cominciano ad assomigliare a quelli di oggi. Ma sono anche gli anni in cui il Negroni andava fortissimo, ed era anche fortissimo: bicchieroni da discoteca pieni di Negroni che serviva a fare serata spendendo poco (ironico, se si pensa che da qualche anno è, in tutto il mondo, il cocktail più venduto e considerato raffinato).
Compare il Long Island Ice Tea, la Pina Colada, l’Angelo Azzurro comincia a spargersi a macchia d’olio e il nuovo ruolo dei tour operator si traduce in più viaggi all’estero e nell’inizio della miscelazione esotica fatta abbastanza male. Uno su tutti, il Mojito pestato con lo zucchero, ovviamente.
Anni Zero
Avvicinandoci ai giorni nostri, si vede chiaramente come anche il bere italiano diventi sempre più nazionale e meno locale. Complici i brand, che iniziano a lavorare più sul mercato, ma anche il lavoro fatto a Londra e a New York da Dick Bradsell e Dale DeGroff, che rispolverano vecchi libri di ricette classiche e le riportano in auge o ce le fanno conoscere.
Aperitivi a buffet sui Navigli da una parte, Mojito e Caipiroska alla fragola e Gin Lemon in discoteca e l’apertura di bar ancora oggi fari del bere di livello come Nottingham Forest a Milano (che propone un bere molecolare, sull’onda di Ferran Adrià), il Rita sempre a Milano (con cui si comincia a parlare di tiki cocktails e, soprattutto, il Jerry Thomas a Roma, che riprende il discorso che si sta facendo nel Regno Unito e negli Stati Uniti e porta dei twist sui classici, autentica rivoluzione.
Ultimo, ma non per importanza, comincia prepotente l’era dello spritz con l’Aperol.
Anni Dieci fino a oggi
Può sembrare che i cocktail che beviamo e i luoghi in cui lo facciamo esistano da sempre. In realtà è solo una decina di anni fa che smette di esserci uno scoglio insormontabile tra i bar d’hotel e quelli popolari. Gli anni Dieci sono l’inizio dei cocktail bar che esistono da soli, in quanto tali.
Le bottigliere cominciano a riempirsi di decine di marchi diversi per ogni categoria, dal gin – e conseguenti menu di gin tonic a metà anni Dieci - al rum al whisky e, piano piano, al tequila. «Mi ricordo che siamo passati dai Mojito pestati e dai Negroni giganti a lavori come quello del Jerry Thomas a Roma, di Patrick Pistolesi» dice Alex Frezza del bar L’Antiquario di Napoli, uno dei migliori al mondo secondo la classifica World’s 50 Best Bars. E così, mentre lo Spritz prende davvero piede in tutte le sue forme e i gin tonic sono ovunque, si è formata una coscienza consapevole di cosa voglia dire bere e di come portare classici e novità agli avventori.
Dai classici, poi, si è arrivati a oggi, dove il Negroni e gli Spritz sono ancora i cocktail più confortevoli, ma ci si sta staccando sempre di più dall’idea di riprodurre vecchi cocktail. Come già in cucina, si sta ricreando un legame territoriale che parte dagli ingredienti e che, con il suo essere accattivante, si trasforma in distensione. Strumenti da laboratorio che ridistillano, cotture di frutti e verdure a bassa temperatura, cordiali fatti con gli scarti di limoni e lime.
Con queste premesse forse sarà difficile tirare fuori dal cilindro il prossimo cocktail classico che vorremmo sempre: ma è anche ora, finalmente, di provare a portare il livello della bevuta a un nuovo, inesplorato livello.
© Riproduzione riservata