- Quest’anno mi ero ripromesso che avrei fatto il meno possibile, ma evidentemente qualcosa è andato storto. La novità del quasi post Covid è questa: non riesco più a dedicarmi contemporaneamente a impegni diversi. Sento il bisogno di allentare l’ossessione per il lavoro.
- La great resignation è una tendenza che viene dagli Stati Uniti e descrive una sorta di dimissioni di massa che, anche in Italia, conta decine di migliaia di persone.
- Se mettiamo insieme le dichiarazioni sulla decrescita della performance e i dati della grande dimissione emerge un quadro che solo parzialmente può essere spiegato con il burnout, la quarantena o la fatica del lavoro.
L'apice del mio masochismo è tra le tre e le quattro del mattino quando, nell’insonnia kinghiana che mi affligge da mesi, penso a quanto è produttiva la mia migliore amica. Si è trasferita in un’altra città per lavoro e adesso, mentre io me ne sto a guardare il soffitto al buio chiedendomi se sto facendo abbastanza, lei di sicuro avrà già fatto colazione, letto un paio di quotidiani e si sarà già messa a scrivere. Quest’anno mi ero ripromesso che avrei fatto il meno possibile, senza affanno: evidentemente qualcosa è andato storto.
Ho la sensazione che mi abbiano già superato tutti. Devo fare di più? Devo prendere nuovi lavori? Anche la pila di letture che mi aspetta sul comodino dice che devo darmi una mossa. La novità del quasi post Covid è questa: non riesco più a dedicarmi contemporaneamente a impegni diversi. Sento il bisogno di allentare l’ossessione per il lavoro. Devo sentirmi in difetto per questo? Tutti dicono di no, ma perché io non ci riesco?
Disintossicarsi dalla performance
Domanda legittima visto che da più parti sui social, in questa bolla balera, si moltiplicano i rimedi per disintossicarsi dall’eccesso di performance. È facile smettere di produrre se sai come fare! Ma la domanda vera è: perché dovremmo? Si chiama Great resignation, è una tendenza che viene dagli Stati Uniti e descrive una sorta di dimissioni di massa che, anche in Italia, conta decine di migliaia di persone. Un licenziamento volontario che soprattutto per la generazione Z rappresenta una ricalibratura dello stile di vita.
Fenomeno che ha già suscitato diverse reazioni come lo scandalo del privilegio – si licenzia solo chi può permetterselo! – e la conferma di un vitalismo occupazionale, se hai talento e versatilità il mercato ti permette di passare da un lavoro all’altro in cerca di quello che ti si addice. Ma allora perché non mi sento meglio?
Delle due l’una: o non sono all’altezza dei ritmi richiesti alla mia professione o i ritmi sono sbagliati, sovradimensionati, ipertrofici. Leggo che siamo già stanchi – e sono solo le prime settimane dell’anno! – che l’eco dei buoni propositi ha avuto breve gittata. Abbiamo scoperto che fare troppo sui social è come fare troppo nella vita: lo si fa per le ragioni sbagliate e quasi mai coincide con il nostro benessere psicofisico. Ma è davvero così dannoso avere prestazioni alte? Lavorare molto può essere una scelta libera o è sempre colpa della combo patriarcato/capitalismo?
Non basta mai
All’università seguivo i corsi e lavoravo quaranta ore a settimana come magazziniere in un centro commerciale, la sera accanto ai testi per gli esami leggevo romanzi fantasy da ottocento pagine ciascuno. Mentre stavo scrivendo il primo romanzo lavoravo in una libreria, mi occupavo di storytelling aziendale per un’agenzia di comunicazione e conducevo un podcast scritto da me per il quale dovevo leggere almeno due libri a settimana. Eppure, in questi due periodi della mia vita andavo a letto ogni sera con un solo pensiero: oggi non ho fatto un cazzo!
La verità è che non basta mai. Anche ammettendo l’esistenza di una sana spinta all’affermazione di sé, una sorta di esprit de travailler, l’unica compagnia di queste notti bianche è il senso di colpa per il bisogno di ridurre le prestazioni.
Sintomo che ritrovo soprattutto in quelli della mia generazione: non siamo mai riusciti a smarcarci dal senso del dovere di una narrazione incentrata sull’idea di realizzarsi, costruirsi con le proprie mani, trovare il lavoro dei sogni e poi mettere su famiglia. Oggi per fortuna possiamo essere felici anche senza essere rappresentati dal lavoro che facciamo.
Visto che c'è differenza tra l’attivismo performativo, inviso ai nuovi esperti di décroissance, e l’impegno sano per cui si può decidere anche di sacrificare aspetti importanti della propria vita, l’impegno per scelta diventa un paradosso: una non adesione alle aspettative sociali.
Se mettiamo insieme le dichiarazioni sulla decrescita della performance e i dati della grande dimissione emerge un quadro che solo parzialmente può essere spiegato con il burnout, la quarantena o la fatica del lavoro. Nell’essere produttivi – e mi riferisco soprattutto al lavoro culturale – sono in gioco aspetti che rendono quella produttività necessaria, autoavverantesi: l’esistenza pubblica, la reputazione, la durabilità dell’immagine.
L’ipocrisia del lavorare meno
In un sistema che premia l’esposizione, il trofeo del non fare ha lo stesso effetto di una scomparsa. Senza contare l’ipocrisia di non far sembrare performativo l’atto stesso di spiegarci come vivere meglio lavorando meno. Come decrescere in assoluta leggerezza senza il rischio di venire dimenticati? E poi, è davvero così temibile l’oblio social?
Forse abbiamo imparato a gestire la sindrome dell’impostore che ci dice che siamo inadeguati dall'interno, ma non abbiamo ancora strumenti sufficienti per difenderci dall’inadeguatezza che ci arriva da fuori. E se invece abbiamo la sciagura di stare nel mezzo? Essere felici di fare tanto e contemporaneamente provare un senso di sconfitta all’idea di sgomitare un altro anno. Quale destino ci attende?
Mai nessuno che faccia un post per noi bifocali, gli ignavi che non riescono a polarizzarsi, e ci dica finalmente come liberarci dal senso di colpa di fare troppo e di fare troppo poco.
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