Il fisco italiano rilancia sul gruppo Kering, impero del lusso mondiale secondo solo ai cugini di Lvmh, e prosegue nella sua attività di recupero dell'evasione dei grandi della moda. Dopo il maxi incasso da 1,25 miliardi di euro che ha sancito la pace tra Gucci e il nostro erario, sono sfilati davanti ai funzionari dell’Agenzia delle entrate i fiscalisti di Bottega Veneta, altro marchio luminoso della conglomerata di proprietà di François Pinault, uno degli uomini più ricchi al mondo.

L’esperienza non dev’essere stata esattamente uguale alle passerelle dalla Fashion week milanese, visto che il gruppo transalpino ha dovuto pagare oltre 186 milioni di euro per trovare l’accordo con l’Agenzia e sfilarsi dalle secche di un accertamento che si è rivelato molto oneroso.

La transazione, che copre le annualità tra il 2013 e il 2019, arriva a valle di un complesso lavoro di indagine del nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di finanza sulle tante società che compongono il gruppo francese, condotto in coordinamento con il pubblico ministero Stefano Civardi della procura di Milano.

L’ufficio inquirente che più di tutti si è adoperato in Italia per rincorrere i grandi evasori sotto la spinta dell’ex procuratore capo Francesco Greco, che ha esaltato il ruolo delle procure nel contenzioso fiscale e che continua ora per merito del procuratore aggiunto Maurizio Romanelli. Uno dei candidati a succedere a Greco il prossimo 6 aprile, quando si riunirà il plenum del Csm per decidere il nuovo capo della procura lombarda, si spera senza troppi ritardi.

Poche tasse, in Svizzera

L’esperienza accumulata con l’indagine Gucci, che ha permesso di scoperchiare lo schema elusivo del marchio di moda fiorentino, è servito poi per risolvere il caso Bottega Veneta. Tutto passa per la Svizzera: in particolar modo per il Canton Ticino, sede della Luxury goods international (Lgi), la società del gruppo Kering che in apparenza era diventata titolare di tutte le funzioni aziendali di ideazione, sviluppo e commercializzazione, logistica e customer care della pelletteria del marchio veneto nato nel 1966.

Secondo questa organizzazione Lgi attraeva a sé tutto il valore aggiunto prodotto dal marchio, anch’esso traslocato in Svizzera nel 2012 (sotto un’altra entità legale), con i relativi utili prodotti dalle vendite e dalle operazioni in tutto il mondo. E nel cantone elvetico di lingua italiana pagava le (poche) tasse sul reddito d’impresa.

Nel caso di Gucci, incardinata sempre sotto la Lgi, l’aliquota andava tra il sette e il 12,5 per cento: ben più bassa di quella in vigore in Italia, dove Ires e Irap sfioravano il 30 per cento negli anni oggetto dell’indagine. Trattandosi della stessa società è facile immaginare che anche le aliquote alle quali era sottoposta Bottega Veneta fossero simili.

L’inchiesta della procura e della Gdf ha consentito di riportare molte di queste funzioni in Italia, dov’erano effettivamente svolte, e con esse il relativo valore aggiunto da tassare secondo le nostre aliquote. In altri termini gli investigatori italiani hanno individuato una «stabile organizzazione» occulta di Bottega Veneta in Italia, che a Cadempino, un borgo da 1.500 anime poco a nord di Lugano svolgeva effettivamente solo le funzioni di logistica e assistenza ai clienti sotto la Lgi.

Riportate le funzioni in Italia, la società ha preferito aderire all’accertamento dell’Erario versando quasi 190 milioni. Una cifra simile a quella emersa sulla stampa circa un mese fa e relativa a un altro marchio della moda.  Il Sole 24 Ore, infatti, aveva dato notizia dell’adesione all’accertamento del marchio di cachemire italiano Loro Piana, che ha transato 195 milioni di euro con l’Erario qualche anno dopo essere entrato nell'orbita dei francesi di Lvmh.

Due procedimenti che hanno permesso alla procura di recuperare circa 400 milioni di euro che si sommano alle decine o centinaia di milioni recuperati negli scorsi anni con Armani, Bulgari, Valentino, e tante altre società minori.

Processo Dolce&Gabbana

Ma le novità fiscali dei giganti della moda non si fermano qui. Secondo quanto risulta a Domani, il prossimo 21 aprile è stata fissata l’udienza in Corte di cassazione per il contenzioso tributario di Dolce&Gabbana. I due stilisti, contrariamente al resto dei grandi nomi della moda, hanno scelto di non trovare un accordo con l’erario, preferendo portare il contenzioso nelle aule delle commissioni tributarie. Dove, peraltro, finora sono usciti sempre sconfitti.

A fine dello scorso anno questo giornale aveva rivelato che, a distanza di ben otto anni, la Cassazione non aveva ancora fissato l’udienza. Un tempo straordinariamente lungo anche a detta della stessa corte, che calcola in quattro anni il periodo medio per fissare le udienze dei processi tributari. Eppure la materia su cui si discute non è di secondo piano, quantomeno per le cifre in ballo.

Anche in questo caso al centro del procedimento c’è una manovra che si suppone elusiva, operata nel 2004. Ovvero la vendita della proprietà dei marchi delle linee di abbigliamento degli stilisti a una società lussemburghese, parte del gruppo.

La cessione a questa entità era avvenuta a un prezzo pari a 360 milioni di euro. Ovvero 180 milioni a testa di incasso da inserire nella dichiarazione dei redditi personale dei due. Valore che è stato contestato dall’Agenzia delle entrate che lo ha ritenuto fin troppo basso in relazione alla crescita attesa del fatturato di Dolce&Gabbana negli anni seguenti.

La commissione tributaria provinciale di Milano (il primo grado del giudizio tributario), davanti alla quale era finito il contenzioso, aveva dato ragione all’erario ricalcolando il valore del marchio in quasi un miliardo e 200 milioni di euro. La differenza è pari a 830 milioni di euro circa, ovvero redditi non dichiarati per 415 milioni a testa per i due stilisti sui quali ognuno avrebbe dovuto pagare 193 milioni di euro di imposte e altrettanti soldi di sanzioni.

Un conto da saldare al fisco che sfiorava quindi gli 800 milioni di euro in totale. Il giudizio di secondo grado ha confermato nella sostanza quello di primo grado con il solo beneficio, per i due stilisti, di un ricalcolo del valore dei marchi ceduti, che è stato portato a 730 milioni di euro dal miliardo e duecento milioni, con ciò che ne consegue per maggiori imposte e sanzioni, che restano ancora molto salate seppur ridotte rispetto al primo grado.

Tra 20 giorni la Cassazione potrebbe mettere la parola fine. Va ricordato che i due stilisti avevano subito anche un procedimento penale per evasione fiscale per il quale erano stati condannati nei primi due gradi di giudizio e poi assolti in Cassazione. 

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