I vertici dei clan temono di essere condannati a vita senza poter ottenere i benefici di pena. Così praticano la “dissociazione morbida”: ammettono gli omicidi e intanto continuano a comandare
- Nei giorni scorsi, Giuseppe Polverino, capo indiscusso dell'omonimo clan, ha fatto quello che da tempo, i capi dei cartelli criminali campani stanno mettendo in atto: una dissociazione morbida.
- L'obiettivo è quello di evitare ergastoli, ottenere le attenuanti generiche e incassare benefici durante l’esecuzione della condanna.
- Non è una strategia che utilizzano i soldati del clan, ma solo i vertici. Prima di Giuseppe Polverino, hanno fatto lo stesso anche Cesare Pagano, Oreste Sparano, Carmine Amato e Ciro Mauriello.
Giuseppe Polverino, detto ’o barone, è il capo dell’omonimo clan che ha il suo feudo a Marano, in provincia di Napoli. Parliamo di uno dei boss più importanti della Campania, erede del sodalizio camorristico dei Nuvoletta, narcotrafficante in grado di smerciare tonnellate di droga, arrestato nel 2012 in Spagna. Nei giorni scorsi Polverino ha fatto quello che da tempo i capi dei cartelli criminali campani stanno facendo: una dissociazione morbida.
Il carcere a vita
L’obiettivo è quello di evitare il carcere a vita, ottenere le attenuanti generiche e benefici durante l’esecuzione della condanna. I boss temono soprattutto l’ergastolo ostativo che non permette di uscire e non consente neanche di fare richiesta e ottenere permessi. Ergastolo ostativo sul quale è chiamata a pronunciarsi, nei prossimi giorni, anche la Corte costituzionale. La Consulta deve proprio decidere se dichiarare incostituzionale la norma che vieta ai boss condannati all’ergastolo di ottenere benefici come la libertà condizionale. I camorristi si portano avanti cercando in ogni modo di evitare condanne e anche, con le loro parziali ammissioni, di delegittimare i collaboratori di giustizia.
Non è una strategia che utilizzano i soldati del clan, ma solo i vertici. Prima di Giuseppe Polverino, hanno fatto lo stesso anche Cesare Pagano, Oreste Pagano, Ciro Mauriello e Carmine Amato, quest’ultimo ha aperto la strada, nel 2018 con una lettera di scuse per un omicidio. Sono tutti membri di vertice del clan Amato-Pagano.
Gli Amato-Pagano vengono definiti dagli inquirenti una delle realtà criminali di maggiore spessore economico-criminale in Campania. Sono una formazione criminale nata dalla scissione del clan Di Lauro, che ha costruito un impero grazie ai traffici di cocaina e ai rapporti con la rete internazionale di narcotraffico riferibile al latitante Raffaele Imperiale, che si trova libero a Dubai. Anche i Polverino sono una formazione criminale che si è arricchita attraverso il «traffico internazionale di stupefacenti, soprattutto hashish importato dal Marocco, quasi in regime di monopolio, disponendo di una rete di persone fidate e particolarmente esperte nei rapporti con le organizzazioni criminali estere, nella fattispecie con i potenti clan maghrebini», si legge nell’ultima relazione della Direzione nazionale antimafia.
Quando i boss vengono arrestati cercano nuove strade per sperare in una libertà che appare impossibile e adottano quello che alcuni investigatori definiscono «pragmatismo criminale». Solitamente nel processo d’appello, se capiscono che la conferma dell’ergastolo per un omicidio è scontata, decidono di ammettere l’addebito. Ma non si tratta in nessun modo di una collaborazione con la giustizia.
Anzi, questa strategia permette ai boss di non perdere nulla in termini di potere criminale. Infatti non accusano terzi, non chiamano in causa altri membri dell’organizzazione, non forniscono alcun contributo nella ricerca della verità, ma ammettono solo quanto emerso nel dibattimento e sostenuto dalla pubblica accusa, semmai già accertato in una sentenza di primo grado.
La dissociazione è una strategia che hanno adottato anzitutto i membri del clan Moccia a inizio degli anni Novanta. Il ragionamento dei boss era quello di ammettere una parte degli omicidi, annunciare il ritiro dalla scena criminale e chiudere i conti con la giustizia. Ovviamente i Moccia non hanno mai smesso di comandare e, anni dopo, sono finiti nuovamente coinvolti in processi e inchieste giudiziarie. Un’ultima indagine nei giorni scorsi ha coinvolto i vertici del clan che avevano messo le mani sul settore dei prodotti petroliferi.
Le confessioni e il potere
Polverino ha ammesso di essere il mandante del delitto del muratore trentenne Santino Passaro avvenuto mentre era latitante in Spagna. La vittima è stata uccisa nel 2008 per una presunta relazione con la moglie di Armando Del Core, membro del clan Nuvoletta e killer del giornalista Giancarlo Siani, ucciso nel 1985. In una inchiesta dello scorso anno era emerso che a distanza di 35 anni dall’omicidio del cronista, i Polverino continuavano a pagare la famiglia del killer.
Non è la prima volta che il boss ha adottato questa strategia. A febbraio Polverino si era dissociato anche durante il processo d’appello che lo vedeva imputato per l’omicidio di Enrico Amelio, imprenditore di Gaeta, ammazzato in un agguato nel 2006 perché si era opposto a una speculazione edilizia.
Anche in questo caso sono arrivate le scuse, tramite lettera. Il boss ha addirittura offerto 150mila euro di risarcimento alla famiglia della vittima. Soldi raccolti sul territorio che sono un chiaro segnale del potere che il boss detiene nonostante si trovi in carcere.
Alla fine hanno ottenuto quello che auspicava. A metà marzo la corte d’appello ha cancellato gli ergastoli ribaltando la sentenza di primo grado nei confronti di Giuseppe Polverino e di altri 4 criminali del clan. I cinque sono stati condannati a 28 anni di reclusione grazie al riconoscimento delle attenuanti generiche e all’esclusione dell’aggravante dei motivi abietti.
Un successo per le difese e un riconoscimento della bontà della strategia della dissociazione morbida che consente ai boss, spesso reclusi al carcere duro, proprio perché in grado ancora di impartire ordini agli affiliati, di ambire a benefici e anche alla possibilità di uscire dal carcere.
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