Mentre il 25 novembre si celebra la giornata internazionale contro la violenza sulle donne, un dossier pubblicato oggi da Action Aid rivela le falle nel sistema istituzionale che dovrebbe contribuire a combatterla.
- In Lombardia «la scarsità di dispositivi di protezione individuale (Dpi), l’impossibilità di accedere ai tamponi e gli spazi inadeguati hanno messo a dura prova la quotidianità dei centri antiviolenza e delle case rifugio».
- «Non è tollerabile che le istituzioni si presentino impreparate a fronteggiare un nuovo lockdown», dice Elisa Visconti, responsabile dei programmi di ActionAid: «l’epidemia ci ha dato lezioni che non dobbiamo dimenticare, prima tra tutte il ruolo essenziale dei centri e delle case rifugio nel sostegno territoriale alle donne».
- L’ intervento istituzionale durante la pandemia, ai vari livelli, è stato valutato in termini negativi dalle operatrici del settore, perché assente o tardivo, laddove attivato.
I centri antiviolenza in Italia non si sono mai fermati, nemmeno durante il lockdown. Le operatrici e le volontarie hanno proseguito nel lavoro di sostegno alle donne vittime di abusi maschili, riorganizzando le modalità e i tempi di lavoro in tempi molto rapidi, garantendo consulenze da remoto da marzo a maggio, nuovamente in sede con modalità cambiate di accesso agli uffici a partire dall’estate. E tuttavia mentre questi aspetti hanno accomunato la maggior parte dei centri esistenti in Italia, in Lombardia, per esempio, è andata diversamente.
Qui, più che da ogni altra parte, «la scarsità di dispositivi di protezione individuale (Dpi), l’impossibilità di accedere ai tamponi e gli spazi inadeguati hanno messo a dura prova la quotidianità dei centri antiviolenza e delle case rifugio». E ancora: «i Dpi sono stati distribuiti solo in pochissimi casi dalle istituzioni locali, in Lombardia, soprattutto, dove ad eccezione della provincia di Bergamo, non sono stati forniti in numero sufficiente per coprire i bisogni delle strutture». Queste sono solo alcune delle denunce contenute nel dossier “Tra retorica e realtà. Dati e proposte sul sistema antiviolenza in Italia”, diffuso oggi, nella giornata internazionale contro la violenza sulle donne, da Action Aid.
Fondi statali e regionali.
I ricercatori della organizzazione non governativa hanno monitorato l’uso dei fondi statali previsti dalla legge 119/2013 (la legge sul femminicidio) insieme all’attuazione del Piano antiviolenza 2017-2020. E ne sono venuti fuori i ritardi ormai storici nella ripartizione dei fondi dallo Stato alle Regioni, le enormi difficoltà gestionali, economiche e di coordinamento del sistema di protezione per le donne vittime di violenza, in tre regioni, in particolare, Calabria, Sicilia e Lombardia. In quest’ultima regione, le operatrici per reperire il gel e le mascherine si sono organizzate «utilizzando i fondi destinati alle spese ordinarie ma, molto più spesso, facendo ricorso a risorse e contatti personali o alle donazioni di fondazioni, organizzazioni della società civile o privati cittadini».
In Calabria, sebbene la legge regionale n.20 del 2007 ha stabilito lo stanziamento annuale pari a 800 mila euro per interventi di protezione, dall’analisi dei bilanci regionali, si legge nel dossier di Action Aid: «risulta che la Regione ha allocato annualmente metà della somma prevista (circa 400 mila euro) per finanziare i centri antiviolenza». E poi, hanno riferito i ricercatori: «vi sono strutture iscritte all’albo regionale che utilizzano personale di sesso maschile o metodologie non basate sulla relazione tra donne».
Ciò accade perché gli accertamenti e le verifiche degli enti si basano su criteri strutturali (agibilità della struttura) invece che di tipo qualitativo, come per esempio sarebbe l’esperienza certificata in materia di contrasto alla violenza sulle donne. Così, in Calabria, alla ripartizione dei fondi stanziati, regionali e statali, contro la violenza sulle donne, in teoria, possono accedere tutti o quasi. Basta possedere una struttura.
In Sicilia, invece, le case rifugio rientrano nel sistema di rette comunali, ma gli enti locali tendono a non erogarle, aggravandone così la sostenibilità economica. Hanno spiegato ancora da Action Aid: «per far fronte a tale difficoltà, la regione Sicilia è intervenuta istituendo il Fondo solidarietà che contribuisce al pagamento del 20% delle rette per le donne non supportate dai Comuni di residenza».
Ma è ovvio che ciò non basta, perché si tratta di un contributo considerato insufficiente, in quanto inferiore alle spese effettivamente sostenute dalle strutture. Ad aggravare il quadro siciliano, poi, c’è il fatto che i comuni non prevedono l’erogazione di un contributo alle donne che escono dalle case rifugio per sostenere il loro percorso di accompagnamento all’autonomia abitativa. Quello del diritto all’autonomia per chi ha subito violenza, però, è una questione che riguarda tutti i territori.
Come hanno riferito le operatrici intervistate: «molte delle donne già assistite e inserite in percorsi di inserimento lavorativo prima dello scoppio del Covid-19, a causa della sospensione dal lavoro, si sono ritrovate impossibilitate a pagare l’affitto, le bollette, e, soprattutto, le spese di prima necessità». E dunque: «laddove i servizi sociali locali sono strutturati e in rete, i centri antiviolenza hanno potuto inviare le donne agli uffici competenti per ottenere sostegno economico, ma in molti territori ciò non è stato possibile».
Ed è così che da un lato le donne sono state esposte nuovamente alla violenza, dall’altro i centri attraverso fondi propri hanno dovuto supplire alle carenze istituzionali. Ed entrambi, i centri e le donne, sono stati lasciati soli, senza risorse.
Istituzioni impreparate.
«Non è tollerabile che le istituzioni si presentino impreparate a fronteggiare un nuovo lockdown», dice Elisa Visconti, responsabile dei programmi di ActionAid: «l’epidemia ci ha dato lezioni che non dobbiamo dimenticare, prima tra tutte il ruolo essenziale dei centri e delle case rifugio nel sostegno territoriale alle donne, che hanno dimostrato una grande capacità di adattamento nel reinventare un modello di intervento rapido che funziona solo con supporti adeguati». E poi avverte: «con la seconda ondata pandemica e con i nuovi lockdown territoriali, i Centri anti violenza corrono il rischio di arrivare al limite delle proprie capacità di sopravvivenza e di resilienza».
Più in generale, l’intervento istituzionale durante la pandemia, ai vari livelli, è stato valutato in termini negativi dalle operatrici del settore, perché assente o tardivo, laddove attivato. Le volontarie e le lavoratrici si sono sentite abbandonate e hanno lamentato l’assenza e il coordinamento istituzionale, in particolare, rispetto ai protocolli sanitari e alla presa in carico delle donne in emergenza. Eppure, non è soltanto una questione di risorse, piuttosto di mancata organizzazione.
Perché per rispondere ai nuovi bisogni delle strutture di accoglienza, la Ministra per le Pari Opportunità, Elena Bonetti, il 2 aprile 2020, aveva firmato un decreto di procedura accelerata per il trasferimento delle risorse per il 2019 prevedendo la possibilità di usare i fondi destinati al Piano antiviolenza per coprire le spese dell’emergenza sanitaria. Nonostante l’urgenza, a distanza di 6 mesi dall’incasso delle risorse, solo cinque regioni avevano erogato i fondi: Abruzzo, Friuli Venezia-Giulia, Lombardia, Molise e Veneto.
Ha fatto quasi meglio una sola organizzazione non governativa, Action Aid, che ha creato a marzo il fondo #closed4women, grazie al quale 24 centri in tutta Italia e in tempi rapidi hanno potuto acquistare dispositivi sanitari (mascherine, disinfettante, guanti), sanificare i locali, dare continuità ai servizi di supporto psicologico e legale, sostenere economicamente le donne che hanno dovuto interrompere percorsi di autonomia e di inserimento lavorativo a causa della pandemia da Covid-19.
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