«Ogni minuto che passa rimpiango il giorno in cui sono diventata una collaboratrice di giustizia». A dirlo è Maria (nome di fantasia), moglie di un reggente di ‘Ndrangheta che dal 2012 è entrata assieme alla sua famiglia all’interno del Servizio centrale di protezione testimoni. Una scelta non sua, ma indotta dalla presa di posizione del coniuge, che sceglie di dissociarsi dall’organizzazione criminale e diventare un pentito, ottenendo in cambio minacce di morte da alcuni suoi ex “colleghi”.

«Io ero fuori dagli affari della ‘ndrina di mio marito, avevo una mia attività legale. Adesso i miei figli, i miei genitori e i miei fratelli sono stati tutti riconosciuti dallo Stato come testimoni ad “alto pericolo”», spiega Maria a Domani. E rifarsi una vita è pressoché impossibile. «La mia storia è stata del tutto cancellata. E per trovare un nuovo impiego il programma di protezione prevede un sistema contorto: se vuoi lavorare puoi farlo solamente con il vero nome e non nella regione di residenza, a tuo rischio e pericolo, in quanto lo Stato non è in grado di passare i tuoi titoli e le tue esperienze lavorative sul nome di copertura», continua.

Una storia di tanti

Quella di Maria è la storia di tanti. Secondo gli ultimi numeri resi pubblici del ministero dell’Interno, sono circa 1.200 i collaboratori di giustizia e 5.000 i familiari che vivono sotto il programma di protezione. I minori, dai dati, risultano essere addirittura il 40 per cento della popolazione sotto protezione.

Queste persone, molto spesso estranee agli ambienti criminali, sono quindi costrette a pagare le inefficienze di un programma di protezione «fermo da circa 20 anni, che necessita di un aggiornamento in termini di formazione di personale e di un maggior investimento economico per garantire una qualità della vita dignitosa», ammette Luigi Gaetti, ex sottosegretario dell’Interno in quota Cinque stelle e in passato presidente della Commissione centrale di protezione.

I fondi per il programma sono stati infatti notevolmente tagliati. Nel secondo semestre 2018 i fondi a disposizione per i circa 6.200 soggetti sotto protezione sono stati circa 44 milioni di euro, con alcune voci di spesa come i canoni di locazione, l’assistenza legale o le spese mediche che rimangono in balia della disponibilità di volta in volta accertabile in bilancio.

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Si può chiamare protezione?

Per intenderci: a Gennaro Panzuto, 46 anni, detto “Terremoto“, ex reggente del clan Piccirillo nella zona della Torretta a Chiaia e killer di fiducia del potente clan Licciardi dell’Alleanza di Secondigliano, gli è stato revocato qualche mese fa il programma di protezione. Liquidato con poco meno di 30mila euro di capitalizzazione dopo 14 anni vissuti sotto protezione e cacciato con un foglio di via dalla Liguria, la procura di Napoli le scorse settimane ha fatto però dietrofront, e gli ha proposto di tornare a vivere sotto copertura. Gennaro ha rifiutato senza battere ciglio. «Non voglio essere più strumento di nessuno, né della Camorra né tantomeno dei Nop (Nuclei Operativi di Protezione ndr)», racconta a Domani. Vive a Napoli da nove mesi nonostante i clan che ha accusato da collaboratore sono ad oggi attivi sul territorio.

Dai Licciardi ai Piccirillo e i Frizziero di Chiaia, fino ai Mazzarella. «Sono stato umiliato per anni, costretto a vivere perfino nello stesso paese del pentito Bruno Danese (camorrista prima al servizio dei clan del Vomero, poi "esiliato" nel cartello degli scissionisti di Mugnano ndr), che io stesso ho fatto condannare dopo una testimonianza. Si può chiamare protezione questa?».

Ma la denuncia di Panzuto riguarda anche le condizioni basilari di vita. «Mi sono sempre fatto carico di tutte le spese, anche quelle dei traslochi per i trasferimenti che mi hanno obbligato a fare. La mia vita ormai è rovinata, i miei otto figli vivono lontano e sono tornato a stare dai miei genitori. Mai e poi mai però tornerò a vivere quell’inferno», aggiunge Panzuto.

I documenti

L’altra grande tara riguarda i documenti. Il Servizio centrale di protezione può creare documenti di identità, patenti, tessere sanitarie e codici fiscali. Sono tutti documenti che - eccetto il caso in cui si effettui un cambio di generalità, molto raro - non hanno corrispondenza anagrafica. «Significa che non esisti, e non puoi né svelare il tuo indirizzo di residenza né tantomeno il vero nome.

Ma se per esempio vuoi iscrivere tuoi figlio a scuola, saranno direttamente i Nop a farlo, e, dunque, i vertici di una scuola verrano comunque a sapere chi si sei. Facendo così i ragazzi vengono emarginati e finiscono con l’abbandonare gli studi», ci dice Luigi Bonaventura, ex boss della cosca Vrenna-Bonaventura, collaboratore di giustizia di ben 14 procure italiane e straniere. Questo buco nero anagrafico colpisce in particolare i familiari dei collaboratori, che pagano sulla propria pelle crimini da loro mai commessi.

«Mio figlio Nemo si è diplomato con 96 su 100 al liceo, ma adesso non gli viene permesso di frequentare l’università nella località protetta. L’unica alternativa è sfoggiare il suo cognome originale al di fuori della provincia e quindi senza alcuna protezione. In alternativa io e tutta la mia famiglia dovremmo nuovamente trasferirci ed utilizzare un documento di copertura non definitivo», continua Bonaventura, abituato a essere bersaglio del Servizio centrale, il quale in estate ha provato a revocare il programma alla moglie, Paola Emmolo, e ai suoi familiari, sette persone tutte incensurate di cui 3 soggetti malati e un minorenne.
Perché questo tipo di trattamento?

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Il ministero degli Interni e il sottosegretario leghista Nicola Molteni, alla guida della Commissione centrale di protezione, interpellati da Domani, non hanno fornito nessuna risposta. Anche se qualcuno un’idea se l’è fatta: «Certe volte sembra proprio che non ci sia l’effettiva volontà politica di far collaborare questi soggetti, forse proprio per proteggere qualcuno che potrebbe essere danneggiato da determinate confessioni», dice Nicola Morra, presidente della Commissione parlamentare antimafia.

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