Le strutture del governo Meloni nell’epicentro della malavita albanese. Due settimane fa la procura ha indagato un ex deputato vicino a Rama
Il moderno palazzo di vetro a quattro piani stona un po’ con la decadenza delle abitazioni circostanti. La struttura, alle porte del centro storico di Tirana, è protetta da un solo furgone della polizia e da un piantone che chiede i documenti. Un cartello indica che siamo arrivati nella sede della super procura contro la corruzione e il crimine organizzato. E qui che ci accoglie Elida Kaçkini, una procuratrice in prima linea della Spak, l’acronimo in lingua albanese di questo ufficio giudiziario che ricorda la nostra procura nazionale antimafia voluta dal giudice Giovanni Falcone, ucciso dalla mafia nel 1992.
Alla super procura lavorano 18 magistrati. Kaçkini segue i casi più delicati su quelli che lei definisce “gruppi organizzati”. In Italia li chiamiamo clan, in Albania gestiscono il business, soprattutto ma non solo, del traffico di esseri umani. Kaçkini ci accoglie nel suo piccolo ufficio, reso asfissiante dalle centinaia di fascicoli investigativi sparsi un po’ ovunque. Ha molto lavoro, insomma. «Abbiamo inchieste, ancora coperte da segreto molto importanti, di cui non posso parlare», è la premessa con cui inizia il colloquio in esclusiva con Domani.
Il nostro viaggio sulle tracce del grande bluff dei centri per i migranti in Albania voluti dal governo di Giorgia Meloni ci ha condotto fin dentro la Spak, dopo che abbiamo scoperto che la filiera dei subappalti si basa su affidamenti diretti, senza gara con il solo obiettivo di fare presto, correre verso la meta dell’inaugurazione senza badare troppo a sottigliezze.
Il fatto però è che tutto ciò è un rischio enorme in un territorio dove la criminalità ricicla i denari del narcotraffico e controlla aziende che si occupano di lavori pubblici. Diverse fonti investigative in Albania e in Italia hanno confermato che «la criminalità organizzata in Albania segue il denaro e che persino a livello europeo c’è uno sforzo congiunto per impedire che drenino risorse alla collettività». Come in Italia, in pratica: i clan sono abili a introdursi nei cantieri pubblici. La magistrata della Spak lo ribadisce: «I gruppi organizzati vanno sempre alla ricerca di fondi pubblici».
A Shengjin e Gjader, 60 chilometri dalla capitale Tirana, il governo italiano, grazie all’accordo con l’esecutivo albanese, sta realizzando i centri di detenzione migranti. La Difesa ha dato il compito di eseguire le opere al 3° reparto Genio dell’aeronautica, stanziando 65 milioni di euro. Ma il Genio non fa tutto in autonomia. La determina, infatti, prevede la possibilità di usare fornitori a iosa, senza limiti, con deroghe totali al codice e senza alcuna verifica antimafia.
Qui però si pone un altro problema: il denaro è del governo italiano, dunque non è facile capire a chi spetti monitorare la gestione delle risorse sul territorio albanese. La procuratrice però preferisce evitare di entrare nella questione, che è più politica che giudiziaria. Ma altre indagini non condotte da Kaçkini restituiscono elemento utili per leggere il territorio sul quale sorgeranno le strutture del governo italiano.
L’area interessata dai lavori ricade nel comune di Lezhe. Si tratta di una zona dove il crimine organizzato prospera. Lo confermano recenti operazioni della Spak sul territorio. Un altro procuratore della super procura ha per esempio indagato sugli affari di diversi gruppi attivi nel comune dove sono in corso i lavori per i centri migranti.
Un comunicato pubblico della Spak è denso di dettagli: delinea un quadro di malaffare e corruzione, traffico di droga e omicidi. Sono stati sequestrati oltre 2 milioni di euro cash e tra gli indagati troviamo anche il direttore della polizia locale di Lezhe, il capo della narcotici dello stesso ufficio e un ex deputato, Arben Ndoke, accusato peraltro di aver fornito informazione per commettere un omicidio. Ndoke è legato al presidente dell’Albania, Edi Rama, tanto che l’opposizione dopo il suo arresto ha accusato il premier con parole durissime: «Non dice una parola, non si scusa con i cittadini che al posto dei loro rappresentanti offrono al governo rappresentanti della criminalità organizzata, addirittura “leader di gruppi criminali strutturati”», ha detto il deputato Gazment Bardhi del partito democratico.
Tra i business più floridi per la criminalità organizzata albanese anche in quelle zone, non lontano dal confine con Montenegro e Kosovo, c’è il traffico di esseri umani. In questo ambito Kaçkini è considerata la più esperta della Spak. Lei non lo dice. Ma questo è un altro business illegale che potrebbe essere favorito dalla presenza del centro di Gjader: se qualcuno dei migranti riuscisse a fuggire da quella struttura si ritroverebbe costretto a rivolgersi a chi gestisce i flussi irregolari in uscita dal paese verso l’Europa. La procuratrice a fine aprile ha chiuso il primo capitolo di una indagine su un gruppo organizzato di trafficanti.
Nella sua rete è finito anche un imprenditore italiano, ancora in carcere: titolare di un’azienda di calzature a Valona, garantiva assunzioni fasulle ai migranti per poi dargli la possibilità di muoversi fuori dall’Albania. «I migranti del Bangladesh pagavano da 5mila a 7mila euro per il viaggio. Abbiamo trovato un milione di euro a casa di una di queste persone. Nel caso sono coinvolti in tutto quattro poliziotti: uno di questi era nella direzione della polizia di frontiera. Dava il via libera ai visti», spiega la magistrata. E precisa: «I trafficanti utilizzano diverse rotte, anche via mare. Ma l’intenzione è sempre quella: raggiungere i paesi dell’Unione europea». La domanda alla quale neppure la procuratrice può e sa rispondere è chi verificherà se parte dei 65 milioni di euro stanziati per costruire i centri in Albania finiranno nelle mani sbagliate.
Ma in questo grande bluff governativo la trasparenza sembra non interessare a nessuno. Salvo ai cittadini italiani.
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