La storia di un ragazzo tunisino di 30 anni, espulso dopo aver trascorso mesi nel Cpr di Milano. Era parte offesa nell’indagine sulle presunte violenze della polizia nel carcere di Modena
Il 26 settembre scorso dal Cpr di Milano sono arrivati a Domani diversi video sulle condizioni di vita dei reclusi all’interno della struttura dove i migranti aspettano di essere rimpatriati.
Il mittente è un trentenne tunisino con una condanna definitiva per rapina, che è stato rinchiuso nel centro in attesa di essere riportato in Tunisia. Alle autorità italiane, come spesso accade, aveva fornito altre generalità visto che era anche sprovvisto di passaporto.
I Cpr, che il governo vuole aumentare, sono strutture a perdere dove i migranti, anche incensurati, scontano una detenzione amministrativa che nulla c’entra con l’eventuale reato commesso e per il quale hanno già scontato la pena, come nel caso del ragazzo tunisino. Di Cpr si muore: d’infarto, dopo l’assunzione di farmaci, di isolamento.
Le cronache, in questi anni, hanno raccontato ogni tipo di abuso. Sono centri che semplicemente non funzionano, solo un ospite su due viene rispedito a casa, sono prigioni che si trasformano in serbatoi criminali dove c’è una costante violazione dei diritti umani e condizioni di disagio anche per le forze dell’ordine che vi operano.
Carenza di personale
I sindacati hanno denunciato la carenza totale di personale che si aggraverebbe con l’apertura di nuove strutture. «I dati che vengono presentati indicano che delle 6.383 persone che nel 2022 sono state ristrette nei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) soltanto 3.154 sono state effettivamente rimpatriate. Il totale dei rimpatri è stato peraltro molto limitato: 3.916, numeri piccoli rispetto al clamore frequente delle intenzioni annunciate.
Quello che qui conta – nel contesto dell’assoluto principio che la privazione della libertà, bene definito “inviolabile” dalla nostra Carta, possa attuarsi solo nella prospettiva di una chiara finalità, legalmente prevista e sotto riserva di giurisdizione – è che circa la metà delle persone trattenute – esattamente il 50,6 per cento – ha avuto un periodo di trattenimento detentivo senza il perseguimento dello scopo per cui esso era legalmente previsto», si leggeva nella relazione del garante nazionale per le persone private della libertà personale, presentata lo scorso giugno.
L’allora garante, Mauro Palma, sottolineava anche una criticità strutturale, «nei Cpr sussiste ormai da tempo una cronica carenza in termini di effettiva tutela sanitaria: tale problematica attiene alla qualità dei servizi sanitari assicurati all’interno dei Cpr dagli enti gestori, ma anche al ruolo subalterno assunto dal servizio sanitario nazionale», si leggeva nel dossier.
Le violenze di Modena
Torniamo a Milano. Quello di Ali Romdani, nome fittizio, è stato un rimpatrio inaspettato visto che è parte offesa e possibile testimone in un procedimento ancora aperto per tortura per fatti accaduti nel carcere di Modena dove era recluso.
La pubblica accusa ha chiesto l’archiviazione, ma il fascicolo non è ancora concluso perché deve esprimersi il giudice. «Mi hanno rimandato in Tunisia all’improvviso, sono testimone di violenze a Modena e non ne hanno tenuto conto. Io mi ero legato la bocca con il filo per farmi ascoltare, il mio avvocato aveva anche parlato con un responsabile della struttura, ma non è servito a niente».
Elementi che il giovane tunisino aveva anche esplicitato, lo scorso settembre, quando il giudice di pace ha convalidato il trattenimento nel Cpr. «La difesa si oppone alla convalida del trattenimento e chiede non procedersi all’espulsione in quanto persona offesa e testimone della procura di Modena in relazione al procedimento penale (7419/2021) ed esibisce il verbale di interrogatorio a dimostrazione che lo straniero è persona offesa dal 25 febbraio 2022», si legge nel verbale, ma la questura di Milano aveva chiesto esattamente il contrario.
«La questura insiste in virtù del fatto che lo straniero è stato considerato pericoloso socialmente». Alla fine, il giudice di pace ha convalidato perché non «risulta la necessità di trattenersi sul territorio dello stato per motivi di giustizia». Il giovane tunisino aveva anche raccontato brevemente la sua storia così: «Sono entrato nel 2016 per cambiare vita, sono stato a Modena, poi sono andato in Francia (..) dove faccio l’idraulico». Contro il decreto di espulsione, il migrante avrebbe potuto fare ricorso, ma non poteva in quanto il tribunale non aveva ancora fissato l’udienza camerale di opposizione alla richiesta di archiviazione.
Pur attestando il giudice, in un documento, la posizione di persona offesa del migrante, non si è potuto evitare l’immediato rimpatrio perché l’attestazione è arrivata tardivamente. Un vero groviglio giudiziario. E adesso cosa potrebbe accadere? Nel caso il giudice non dovesse archiviare il procedimento per tortura, a quel punto come potrebbe il soggetto tornare in Italia? Lo hanno spiegato per vie brevi gli inquirenti ai legali del tunisino.
La parte offesa, possibile testimone, dovrebbe presentare un’istanza alle autorità tunisine, a quelle italiane, inserire numero e data dell’eventuale udienza, fornire un’assicurazione sanitaria, ma anche indicare la residenza, i mezzi economici, la dimora dove soggiornare, il nominativo dell’ospitante in Italia e copia del documento. Insomma, in caso di non accoglimento della richiesta di archiviazione, l’Italia ha già deciso che farà a meno di quella testimonianza.
Il procedimento per tortura, per il quale la procura ha chiesto l’archiviazione, vede indagati cinque agenti di polizia penitenziaria che rispondono dei reati di tortura e lesioni aggravate per i fatti accaduti nel carcere di Modena, il giorno 8 marzo 2020. Quel giorno, su questo c’è un altro fascicolo aperto, decine di detenuti hanno devastato il carcere mentre morivano nove reclusi dopo aver assaltato la farmacia. Morti che sono rimaste senza giustizia con la definitiva chiusura dell’indagine.
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