«L’Italia non è il campo profughi d’Europa», dice Meloni. «Affonderemo barchini e barconi», le fa eco Salvini. Ma gli annunci del governo si scontrano con difficoltà reali. Il piano sui nuovi centri per i migranti ha tempi e numeri incerti. E dalle regioni si moltiplicano le voci contrarie
«Non permetterò che l’Italia diventi il campo profughi d’Europa», dice Giorgia Meloni mentre depone una corona di fiori alla statua di Cristoforo Colombo, a New York. Per la premier, che oggi interverrà all’Assemblea delle Nazioni Unite, bisogna «dichiarare guerra ai trafficanti di uomini». «Affondare barchini e barconi è un dovere morale per noi», le fa eco Matteo Salvini, ancorato in Italia e affezionato a Twitter.
Le parole della premier e del vicepremier arrivano dopo la decisione di costruire nuovi centri di permanenza per il rimpatrio, come stabilito nel Consiglio dei ministri del 18 settembre, con l’aumento da 6 a 18 mesi del tempo massimo di trattenimento dei migranti. Il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, ha espresso l’indicazione di aprire una struttura in ogni regione.
Permanenza e rimpatrio
Attualmente ci sono nove Cpr attivi, mentre quello di Torino – chiuso per i danneggiamenti causati da alcuni ospiti – deve essere ristrutturato. Ne mancano quindi dodici all’appello. Dove saranno costruititi e con quali tempistiche? Le regioni che ne sono ancora prive sono Calabria, Molise, Campania, Marche, Abruzzo, Toscana, Emilia-Romagna, Veneto, Liguria, Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta.
Entro due mesi, fanno trapelare fonti di governo, la lista delle aree identificate per ospitare i nuovi Cpr sarà pronta. Le strutture saranno individuate dalla Difesa – si pensa a ex caserme lontane da centri abitati, controllabili e perimetrabili – e poi adattate dal Genio militare. Una mossa della premier Meloni per affidare il dossier al ministro Guido Crosetto, sottraendolo alle mani della Lega. La vigilanza sarà invece affidata a polizia e carabinieri.
Parole e realtà
Fin qui le intenzioni del governo, che si scontrano con una realtà più complessa. A pesare sono le preoccupazioni dei vertici delle forze armate, di cui ha dato conto Domani: gli apparati militari hanno dubbi «su una mansione indefinita nei costi e nelle risorse necessarie». Per il momento non ci sono ipotesi di budget né si sa quali saranno i requisiti minimi delle strutture da allestire.
Ma ancora più preoccupanti sono i segnali dei territori che dovranno ospitare i nuovi centri. Le voci arrivate dalle regioni, fino ad ora, sono tutt’altro che incoraggianti. Pochissime sono quelle a favore, come nel caso del presidente della Liguria Giovanni Toti, che ha già dato a Piantedosi «la disponibilità a collaborare per dare una risposta ordinata alla crisi». E a realizzare un centro rimpatri anche nella sua regione.
La freddezza dei governatori è reale, al di là della provenienza geografica e politica. Ma con il passare delle ore i distinguo sono cresciuti. Si va dallo scetticismo di molti presidenti di centrodestra – «Non ne sappiamo ancora nulla», è la versione più diffusa – all’aperta contrarietà dei governatori di centrosinistra.
Not in my backyard
A fare orecchie da mercante, per ora, è il governatore leghista del Veneto, Luca Zaia: «Su un Cpr qui non ho parlato con nessuno, non siamo stati contattati. Abbiamo superato le 9mila persone ospitate e la misura è colma». Molta cautela arriva anche dalle Marche – «Da noi non c’è l’esigenza di avere questo centro», ha detto il vicepresidente Filippo Saltamartini, anche lui leghista – e dal Molise: «Noi non abbiamo una struttura idonea da adibire a Cpr», ha aggiunto il forzista Francesco Roberti.
La linea di destra, scettica ma non perentoria, conta anche un alleato insospettabile. Polemico sull’iniziativa, ma molto meno dei suoi compagni di partito, è pure Vincenzo De Luca: «Non abbiamo capito ancora cosa voglia realizzare il governo, quindi siamo nell’impossibilità di esprimerci. Noi qui già abbiamo centri di accoglienza», ha detto il governatore della Campania.
Zero possibilità
«Non darò l’ok a nessun Cpr in Toscana», ha tagliato corto il presidente Eugenio Giani (Pd). «Si stanno prendendo in giro gli italiani, perché il problema è come farli entrare e accoglierli, non come buttarli fuori. Cosa c’entra il Cpr come risposta all’emergenza?». Giani guida il fronte dei contrarissimi, a cui si sono iscritti molti presidenti di regioni amministrate dal centrosinistra.
Tra questi c’è Stefano Bonaccini, che pure alterna fughe in avanti a fughe indietro. «Non ci rendiamo disponibili a nulla se sono parole al vento. Questo è il governo che ciancia di autonomia e centralizza tutte le decisioni a Roma, scavalcando gli enti locali. Per me in questo momento di Cpr non se ne parla proprio», ha detto a Radio 24 il governatore dell’Emilia-Romagna.
Poi, nel pomeriggio, toni più morbidi: «Mi sono sentito con il ministro Piantedosi e ci siamo detti che ci vedremo a breve. Ci sono stati dei misunderstanding ma non voglio litigare perché lo ricordo come un ottimo prefetto di Bologna», ha aggiunto il capo della minoranza dem. A bocciare con forza l’ipotesi di nuovi Cpr è invece il sindaco di Bologna, Matteo Lepore, che ha accusato il governo di «scegliere politicamente il caos» e di «non fare sistema».
Migrazione e asilo
La realtà incombe da nord a sud e fa capolino anche da Bruxelles. In Europa si blocca il negoziato sulla redistribuzione dei migranti, con l’Europarlamento che protesta per l’impasse del Consiglio. Il Parlamento europeo ha infatti sospeso il negoziato sul testo per il database europeo per le richieste d’asilo e sul testo sullo screening congiunto degli arrivi. Una scelta adottata in risposta «allo stallo al Consiglio Ue sulla regolamentazione delle crisi migratorie», ha detto Elena Yoncheva, eurodeputata del gruppo S&D.
Ad aprile il Parlamento aveva adottato mandati negoziali sulle proposte del pacchetto migrazione e asilo, incluso il testo sulla regolamentazione delle crisi redatto dal socialista López Aguilar. In seguito al voto, l’Eurocamera ha istituito un gruppo di contatto sull’asilo che oggi ha lanciato un monito, annunciando il blocco dei negoziati. Un altolà da attribuire all’intransigenza dei governi conservatori dell’Est Europa.
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