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Nello spazio di tre anni le grandi major energetiche italiane, Eni, Snam ed Enel, hanno fatto ricorso a strumenti finanziari a sostegno della decarbonizzazione per oltre 37 miliardi di euro.
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Buona parte del capitale raccolto, tuttavia, potrebbe non essere stata utilizzata per finanziare, per lo meno nell’immediato, la riduzione dell’esposizione sul fossile. Lo evidenziano i dati pubblici che emergono dai prospetti finanziari dei titoli. Nulla di illecito, ma le perplessità sono inevitabili.
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Sul futuro del mercato dei sustainability, in ogni caso, potrebbe incidere, di riflesso, l’attesa adozione dello European green bond standard.
Nello spazio di tre anni le grandi major energetiche italiane, Eni, Snam ed Enel, hanno fatto ricorso a strumenti finanziari a sostegno della decarbonizzazione per oltre 37 miliardi di euro. Buona parte del capitale raccolto, tuttavia, potrebbe non essere stata utilizzata per finanziare, per lo meno nell’immediato, la riduzione dell’esposizione sul fossile. Lo evidenziano i dati pubblici che emergono dai prospetti finanziari dei titoli. Nulla di illecito, intendiamoci. Ma le perplessità sono inevitabili.
La vicenda Snam
Emblematica la vicenda di Snam, finita al centro di una recente analisi interna di ReCommon, un’organizzazione attiva nelle campagne di responsabilità sociale e ambientale. Tra il 2019 e il 2021 la compagnia ha collocato sul mercato cinque titoli verdi: un “Climate-action” e quattro “Transition” bond raccogliendo 2,85 miliardi di euro.
Tecnicamente si tratta di obbligazioni che pagano interessi periodici e finanziano progetti verdi in linea con gli standard Onu. Il capitale viene assegnato per intero a queste iniziative ma solo gradualmente. E infatti, ha riferito in proposito la stessa Snam in un rapporto pubblicato a marzo, i cosiddetti progetti idonei hanno ricevuto finora solo il 60 per cento circa dei quasi tre miliardi previsti. Fin qui nulla di strano, ci mancherebbe. Ma il problema, osserva ReCommon, è che la quota non ancora allocata può essere usata per finanziare nell’immediato qualsiasi altro tipo di operazione, comprese – ha precisato DNV GL, la società norvegese che ha certificato i bond – quelle che non hanno a che fare con la decarbonizzazione come «il rimborso delle linee di credito in sospeso o il saldo dei debiti in essere».
A conti fatti, ha spiegato la stessa Snam, il 56 per cento della cifra totale raccolta con i bond servirà a preparare la rete al trasporto della miscela gas/idrogeno. Le rinnovabili, rappresentate in questo caso dagli investimenti nel biogas, raccoglieranno per contro appena il 14 per cento dei proventi.
«L’attività principale di Snam è la realizzazione e la gestione di infrastrutture energetiche. Pertanto, la destinazione del 56 per cento delle risorse per predisporre la rete di trasmissione all’idrogeno (retrofit) è perfettamente coerente con il proprio ruolo», ha precisato l’azienda.
Molto critica nei confronti dell’operazione è invece ReCommon. «Snam usa nomi evocativi per le sue emissioni di bond green, ma poi utilizza i proventi per operazioni radicate nel business fossile», hanno dichiarato Elena Gerebizza e Filippo Taglieri, due rappresentanti dell’associazione. Che aggiungono: «Sono molte le voci critiche del blending, ovvero del trasporto di quantità minime di idrogeno mescolato a gas fossile, che andrebbe a totale vantaggio di aziende come Snam il cui obiettivo è allungare la vita alla filiera del gas». L’azienda, concludono i due esponenti, «non esplicita nemmeno di che tipo di idrogeno si tratti». Come dire: «Potrebbe anche essere idrogeno prodotto da gas fossile, il cui impatto climatico è ancora più alto di quello del gas».
Obiettivi di sostenibilità
Sotto la lente anche un’altra categoria di titoli green, i cosiddetti sustainability-linked bond. Lo schema è il seguente: le imprese che li collocano sul mercato fissano alcuni obiettivi misurabili, come, ad esempio, la riduzione delle emissioni di CO2. Il capitale raccolto può essere utilizzato in qualsiasi modo. Se gli obiettivi non vengono raggiunti, l’emittente – cioè l’impresa – paga un interesse aggiuntivo ai sottoscrittori.
Funziona così per il collocamento da un miliardo realizzato nel giugno 2021 da Eni, che si è impegnata ad azzerare le emissioni nette (scope 1 e 2) entro il 2035 e a superare i 6 GW di capacità installata di energia rinnovabile alla fine del 2025. Così come per l’operazione da 1,5 miliardi portata a termine da Snam nel gennaio di quest’anno (tra gli obiettivi: dimezzamento delle emissioni nel periodo 2018-30) e, soprattutto, per le maxi operazioni di Enel.
In passato l’azienda aveva collocato tre green bond per 3 miliardi e mezzo di euro fortemente orientati agli investimenti sulle rinnovabili. Dal settembre 2019 in poi la compagnia si è affidata solo a strumenti sustainability-linked, ottenendo finanziamenti per circa 28 miliardi e mezzo di euro. L’uso del capitale, come detto, resta libero. I proventi dei collocamenti realizzati rispettivamente il 12 luglio (4 miliardi di dollari) e il 28 settembre dello scorso anno (3,5 miliardi di euro), ad esempio, sono stati utilizzati rispettivamente per il rimborso e il parziale riacquisto di altri bond ordinari già presenti sul mercato.
Deterrenti adeguati?
Quanto all’interesse aggiuntivo da riconoscere in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi, parliamo di 25 punti base o 0,25 punti percentuali. Un deterrente adeguato? Le compagnie non sembrano avere dubbi. Enel, in particolare, ricorda che col passare del tempo il suo debito «sarà completamente legato alla sostenibilità». Sottolineando, quindi, «il potenziale impatto negativo in termini di incremento del costo che potrebbe avere un aumento di 25 punti base nel caso in cui non fossero raggiunti gli obiettivi». Un’idea condivisa da Snam che parla, di conseguenza, di «significatività dello strumento in termini di incentivo per l’azienda» al conseguimento dei traguardi climatici.
Eni, infine, ricorda che il fallimento degli obiettivi di sostenibilità «comporterebbe anche un rilevante impatto reputazionale che potrebbe precludere future emissioni dello stesso strumento».
Infine la variabile regolamentare. Luigi Bottos, head of ESG Certification strategic centre presso Rina, non entra nel merito delle singole emissioni né delle scelte delle compagnie. Ma evidenzia come quella dei 25 punti base aggiuntivi sia «una misura che si riscontra attualmente in un mercato che è ancora giovane e in crescita». Per questo, aggiunge, «non è da escludere che in futuro questo valore possa cambiare».
Sul futuro del mercato dei sustainability, in ogni caso, potrebbe incidere, di riflesso, l’attesa adozione dello European green bond standard che, secondo Claudia Strasserra, chief reputation officer e sustainability manager di Bureau Veritas Italia, stabilirà verosimilmente il «vincolo dell’uso dei proventi per i progetti verdi in linea con la tassonomia». Ad oggi, dichiara, «Non sappiamo ancora se lo standard europeo varrà solo per i green bond o includerà anche strumenti diversi come i sustainability-linked, ma è lecito immaginare che esso rappresenterà il principale punto di riferimento per l’intero mercato della green finance in generale».
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