Il Covid-19 pone problemi non solo medici e sanitari, ma pure economici. Il riavvio delle attività lavorative e scolastiche, necessarie per la ripresa del paese, impone di considerare la situazione di coloro che devono rimanere, a vario titolo, segregati per contenere la diffusione del contagio, come previsto dalla legge
- I “positivi asintomatici” che deve stare in isolamento per contenere la diffusione del contagio da Covid-19, ma non stanno male, devono astenersi dal lavoro?
- Il problema si pone perché la legge prevede che il periodo in cui si deve stare in isolamento sia equiparato, a fini lavorativi, alla malattia. Ma nulla sembra vietare che chi non sta male possa lavorare a distanza.
- Una cosa è “andare a lavorare”, altra cosa è “lavorare”. E una cosa è l'atto di messa in quarantena o in isolamento, altra cosa è il certificato medico che attesta la malattia. Quindi, chi deve stare in isolamento perché dovrebbe chiedere un certificato?
Il Covid-19 pone problemi non solo medici e sanitari, ma pure economici. Il riavvio delle attività lavorative e scolastiche, necessarie per la ripresa del paese, impone di considerare la situazione di coloro i quali devono rimanere, a vario titolo, segregati per contenere la diffusione del contagio, come previsto da regole vigenti.
La questione non riguarda quelli che, infettati dal virus, si sentono male. Il problema si pone per le persone che debbono stare in isolamento obbligatorio perché positive al Covid-19, ma non avvertono alcun malessere che renda per loro più disagevole lavorare. I “positivi asintomatici”, se non sono tenuti a lavorare in presenza, possono farlo da casa?
La stessa domanda si pone anche al fuori dei casi accertati di positività al virus, e cioè per chi viene messo in quarantena o in isolamento dall’autorità sanitaria, in quanto ha avuto contatti stretti con casi confermati di soggetti positivi al virus o è rientrato in Italia da paesi a rischio. In queste ipotesi, il periodo in cui si è tenuti a stare segregati è equiparato alla malattia, a fini lavorativi, con la corresponsione del medesimo trattamento economico, come disposto dalla legge per i dipendenti sia del settore privato sia di quello pubblico. Anzi, per i dipendenti pubblici il periodo trascorso «in malattia o in quarantena con sorveglianza attiva, o in permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva (…) è equiparato al periodo di ricovero ospedaliero» (e, quindi, con retribuzione complessiva, senza decurtazione di indennità specifiche e di trattamenti accessori). In questi casi, le norme che assimilano l’isolamento obbligatorio alla malattia precludono in ogni caso di lavorare? In altre parole: al provvedimento che obbliga all’isolamento deve necessariamente conseguire un certificato medico e, quindi, l’equiparazione alla “malattia”?
La risposta è no, per vari motivi.
Se l’attestazione del contagio, sia pure senza sintomo alcuno, e il conseguente obbligo di isolamento o anche solo l’obbligo di isolamento per chi non è stato contagiato, comportasse sempre anche una certificazione di malattia e, quindi, imponesse di non lavorare, non solo le conseguenze sarebbero rilevanti, ma si creerebbe un pericoloso precedente.
Da un lato, vi sarebbe il rischio che le attività economiche non possano ripartire a pieno ritmo o debbano essere sospese a causa delle assenze non di chi sta male, ma di chi è privo di sintomi, e tuttavia viene comunque costretto ad astenersi dal lavorare, anche se potrebbe farlo da casa. La ripresa del paese, necessaria per evitare il collasso paventato da vari esperti, potrebbe risultarne compromessa. Per non parlare dell’aggravio a carico delle dissestate casse dell’Inps, laddove prevalesse questa impostazione: negli ultimi giorni, a fronte di un numero ingente di tamponi effettuati, sono emersi moltissimi casi di contagio di persone in età da lavoro e asintomatiche.
Nessun divieto
Ma c’è il rischio ulteriore di creare un grave precedente, che discenderebbe dal legittimare la circostanza che, pure quando si sta bene, ci si può astenere dal lavorare esattamente come quando si sta male. E questo è evidentemente un assurdo, che è meglio evitare.
Inoltre, passando a valutazioni in punta di diritto, le norme sopra richiamate non vietano di lavorare: si limitano a predisporre una tutela per coloro i quali non possano farlo perché devono stare in isolamento – quindi per i casi di lavoro necessariamente in presenza – e forniscono la causale idonea a giustificare l’assenza e il titolo a percepire il relativo trattamento economico, ma non dispongono alcun divieto.
Attenzione: una cosa è “andare a lavorare”, cosa che non si può fare se si deve restare segregati; altra cosa è “lavorare”, specie in un periodo come questo, in cui molti possono lavorare a distanza. Una cosa è l'atto di messa in quarantena o in isolamento per le cause indicate, dalla positività al virus alla precauzione; altra cosa è il certificato medico che attesta la malattia, cioè quella situazione che «determina l'incapacità lavorativa» (definizione presente sul sito web dell’Inps). Dunque, chi sta male a causa del Covid-19 e non si sente di lavorare chiede al proprio medico di attestare il suo stato, come avviene per qualunque malanno. Ma chi ha contratto il virus e sta bene, così come chi debba comunque stare in isolamento e possa lavorare a distanza, perché dovrebbe chiedere un certificato che dichiari la sua malattia, se malato non è, cioè se non ha alcun sintomo che gli impedisca di svolgere i propri compiti da casa?
Il certificato medico
La distinzione tra atto di messa in isolamento e certificato medico attestante la malattia è ben precisata anche per altri motivi sul piano normativo.
Basta leggere il dpcm dell’8 marzo 2020 e le prescrizioni per chi è entrato in Italia dopo aver soggiornato in zone a rischio epidemiologico. Una volta «accertata la necessità di avviare la sorveglianza sanitaria e l'isolamento fiduciario», in caso di “eventuale” necessità di certificazione per giustificare l'assenza dal lavoro, l’operatore sanitario procede a «rilasciare una dichiarazione indirizzata all'Inps, al datore di lavoro e al medico (…) in cui si dichiara che per motivi di sanità pubblica è stato posto in quarantena, specificandone la data di inizio e fine». Dunque, al provvedimento di messa in isolamento consegue solo eventualmente la certificazione di “malattia”.
Anche l’Inps, nel messaggio n. 2584 del 24 giugno scorso, chiarisce che per il riconoscimento della tutela di legge e, quindi, della «equiparazione della quarantena alla malattia ai fini del trattamento economico previsto», il lavoratore deve produrre «il certificato di malattia attestante il periodo di quarantena», nel quale «il medico curante dovrà indicare gli estremi del provvedimento emesso dall’operatore di sanità pubblica».
Di nuovo, una cosa è l'atto di messa in quarantena, altro è il certificato medico che giustifica l’assenza, precisandone il motivo: motivo che non è “l’incapacità lavorativa”, ma l’impossibilità di andare a lavorare.
È necessario avere chiara questa distinzione, per impostare correttamente il problema che si è posto, al fine di evitare conseguenze che non trovano giustificazione alcuna, non solo sul piano giuridico, ma su quello della razionalità e del buon senso.
In conclusione, l’equiparazione prevista tra isolamento e malattia non fornisce alibi per non svolgere la propria attività, per chi possa farlo a distanza, ma serve a giustificare l’assenza dal lavoro per chi non possa “andare a lavorare” in presenza.
Perché scatti la tutela predisposta dalla normativa devono ricorrere due presupposti: quarantena o isolamento obbligatorio e attività lavorativa non effettuabile da casa. E le stesse conclusioni valgono per chi è asintomatico, anche se positivo al virus, e non è inabile allo svolgimento dei propri compiti professionali.
La pandemia ha indotto il legislatore a prevedere alcune garanzie per i lavoratori, perché il lavoro è importante, specie in un periodo difficile come questo: bene non approfittarne.
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