Per alcuni stabilimenti in crisi la pandemia è stata un momento di riscatto grazie alla riconversione per la produzione di mascherine, ma l’incertezza del futuro e il distanziamento sociale creano diverse situazioni di difficoltà
- A causa dell’emergenza Covid-19, le fabbriche hanno dovuto ripensare la loro organizzazione interna.
- Alcuni stabilimenti in crisi sono riusciti a riscattarsi provvisoriamente riconvertendo parte dei loro impianti per la produzione di mascherine. Ma questa scelta non è stata indolore per via delle nuove disuguaglianze create nella fabbrica.
- Su tutti luoghi di lavoro permane il distanziamento sociale e la paura dei contagi che rendono difficile lavorare serenamente e anche chi è in smart working inizia ad accusare i limiti di questa modalità di lavoro.
Le fabbriche sono tra i pochissimi luoghi di lavoro a essere rimasti sempre aperti anche durante il lockdown di marzo. Ma com’è cambiato il lavoro a causa della pandemia? Ci sono aziende in crisi per cui l’epidemia è stata paradossalmente una occasione per riconvertire la produzione, altre in cui ha marcato la linea di divisione tra chi lavora in ufficio e chi fa l’operaio, tutte hanno dovuto imparare a convivere con la paura del contagio. Abbiamo chiesto alla Fiom di raccogliere le testimonianze dei lavoratori ai tempi delle pandemia e ve le presentiamo.
Gran parte delle contraddizioni di questo lockdown sono racchiuse nella storia di Italia D’Acierno lavoratrice dello stabilimento Fca di Pratola Serra in provincia di Avellino. Per questa struttura l’emergenza Covid-19 ha rappresentato una boccata di ossigeno anche se temporanea. «Il nostro stabilimento, nato nel 1993, costruisce propulsori per il diesel e ha attraversato due crisi: una di settore automobilistico e una dovuta al progressivo abbandono dei motori a diesel. Il risultato è stato che da dodici anni siamo in cassa integrazione. In questo contesto, l’emergenza Covid-19 ci ha permesso di riconvertire parte della nostra struttura per la produzione di mascherine dando così la possibilità a più lavoratori di essere attivi». Ma gestire questo cambiamento non è stato semplice sia a causa delle disparità economiche che si sono venute a creare tra i lavoratori nei due reparti sia perché le mansioni sono di tipo diverso e nel caso delle mascherine richiedono un minore sforzo fisico, ma una maggiore velocità.
La paura del virus
A questo bisogna aggiungere un’incertezza dovuta sia alla situazione economica dello stabilimento sia all’aumento dei contagi in Italia. «La paura del virus non rende serena l'attività produttiva né in meccanica né alle mascherine, le tante informazioni che ci bombardano portano incertezza e spesso tensione nei luoghi di lavoro, anche se i lavoratori collaborano tra di loro perché sappiamo che ne usciremo solo uniti»: spiega D’Acierno che poi aggiunge: «Per ora sappiamo solo che fino a settembre 2021 la situazione sarà questa. Ma la vera paura, vista anche la fusione tra Fca e Peugeot, è per il futuro dello stabilimento una volta che questa boccata d’ossigeno dovuta alle mascherine cesserà ».
Salvatore Carotenuto lavora alla Ducati e racconta la sua giornata tipo: gli ingressi sono scaglionati e il distanziamento sul luogo del lavoro è sempre presente. Appena arrivano nella struttura gli operai devono disinfettarsi le mani e sono controllati da infermieri che misurano la temperatura.
Sebastiano D’Onofrio è invece rappresentante sindacale di azienda nello stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco e racconta di come il luogo di lavoro sia totalmente cambiato durante la pandemia a causa della tensione dovuta alla presenza del virus. L’unica cosa che rimane per comunicare sono gli occhi «a volte pieni di lacrime, che dicono tutto». Il Covid-19 è entrato nella fabbrica e ha colpito anche un rappresentante sindacale che è costretto da due settimane a stare in ospedale.
Lavora nel ramo impiegatizio della stabilimento Fca di Mirafiori, invece, Fabio Di Gioia che da marzo è insieme a molti colleghi in smart working. «Il malcontento per questa situazione sta già montando» racconta il delegato Fiom che dice «ci sono problemi di natura organizzativa come quello di alcuni lavoratori che non hanno abbastanza spazi nelle proprie case per lavorare in serenità, ma soprattutto c’è un problema di mancanza di comunicazioni verbali che il lavoro in presenza permetteva». Secondo Di Gioia, alla fine della pandemia non è scontato che lo smart working diventi una modalità di lavoro permanente come lo è stata durante l’emergenza.
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