Dopo l’attentato di Bruxelles il governo ha aumentato i controlli alle frontiere. Ma i dati dimostrano che quasi sempre la radicalizzazione avviene in Europa
«Ho più volte cercato di accendere i riflettori sul fatto che dall’immigrazione illegale di massa possono sorgere anche gravi rischi per la sicurezza in Europa». Queste parole sono state pronunciate dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, al Consiglio Ue dopo la diffusione della notizia che Abdesalem Lassoued, attentatore che a Bruxelles nella notte di lunedì ha ucciso due cittadini svedesi, è arrivato a Lampedusa nel 2011.
Il ministro della Difesa, Guido Crosetto, dalla sua missione in Qatar, ha detto che «come ha dimostrato e dimostrano i fatti del Belgio, ogni giorno arrivano migliaia di persone e tra queste migliaia di persone può esserci chiunque». Il passato del tunisino Abdeslam, che avrebbe girato l’Italia e la Francia prima di fare richiesta di asilo in Belgio nel 2019, ha fornito al governo sovranista l’alibi perfetto per una gestione migratoria securitaria e di chiusura delle frontiere.
Nella giornata di mercoledì palazzo Chigi ha annunciato la decisione di reintrodurre i controlli al confine con la Slovenia. «L’intensificarsi dei focolai di crisi ai confini dell’Europa, in particolare dopo l’attacco condotto nei confronti di Israele, ha infatti aumentato il livello di minaccia di azioni violente anche all’interno dell’Unione», si legge nella nota pubblicata dal governo. Nel pomeriggio la presidente del Consiglio si è riunita con il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, quello dell’Interno, Matteo Piantedosi, della Giustizia, Carlo Nordio, con il sottosegretario Alfredo Mantovano proprio per discutere del rischio terrorismo.
I dati
Fare la semplice correlazione tra migranti e terroristi non aiuta ad analizzare il fenomeno. E ce lo dicono anche i dati. Secondo il centro di ricerca Startinsight – che ha analizzato le aggressioni terroristiche compiute dal 2014 al 2020 – solo il 16 per cento di questi sono stati compiuti per mano di migranti irregolari (22 su 138) non specificando la provenienza. La stragrande maggioranza sono stati invece perpetrati da immigrati regolari, di seconda e terza generazione, e da cittadini europei che si sono convertiti all’islam.
Un dato significativo se consideriamo anche che alcuni dei migranti arrivati in Europa da Lampedusa, e che poi hanno compiuto attentati terroristici, hanno sposato la causa dello Stato islamico in un secondo momento. Quindi il percorso di radicalizzazione è avvenuto una volta arrivati in Europa e non prima. Basta pensare che Abdeslam Lassoued – dichiaratosi affiliato all’Isis – è arrivato a Lampedusa nel 2011, mentre Abu Bakr al Baghdadi ha fondato lo Stato islamico soltanto nell’aprile del 2013.
Stessa storia per Anis Amri, l’attentatore dei mercatini di natale di Berlino (2016), arrivato a Lampedusa nel febbraio del 2011. Altre storie citate mercoledì dal quotidiano Libero, come quelle di Sillah Ousmane, Alagie Touray, Moshin Omar Ibrahim, Adam Harun e Ali Asmi Sef Aldin raccontano invece di attentati pianificati a meno di due anni dal loro arrivo o da soggetti già radicalizzati prima ancora di approdare in Italia.
Ma tutti quanti sono stati fermati in tempo dalle nostre autorità a dimostrazione che i servizi d’intelligence e di prevenzione della sicurezza italiani sono ancora molto efficaci. Infine, un dato di rilievo: dal 2011 a oggi, secondo i dati del ministero dell’Interno, sono arrivati in Italia 1.125.822 migranti irregolari. Il rapporto tra sbarchi e attentatori ufficiali passati per il nostro paese ci riporta una percentuale vicina allo zero, anche se tiene conto solo dei soggetti passati all’azione.
Si radicalizzano qui
Ciò che spinge i migranti di seconda generazione alla jihad è un insieme di fattori su cui i governi europei possono intervenire attraverso meccanismi di prevenzione. Gran parte degli analisti e degli esperti concordano sul fatto che i processi di radicalizzazione si innescano per cause diverse come: emarginazione culturale e sociale, problemi di identità, discriminazione e una situazione economica precaria o al limite dello sfruttamento.
Condizioni facilmente ritrovabili nelle periferie delle grandi città europee o in quartieri-ghetto come il tristemente noto Molenbeek di Bruxelles, da dove è nata la rete che ha organizzato gli attentati di Parigi del 2015. Fornire un’opportunità o un contesto che favorisca l’integrazione e l’interscambio culturale senza dover abdicare alla propria identità religiosa è un primo passo per abbattere l’alienazione sociale.
Un altro contesto che favorisce la radicalizzazione jihadista in Europa e in occidente in generale è il sistema carcerario. Secondo i dati dell’Ispi sugli attentati jihadisti commessi in Europa e nord America dal 2014 al 2019, quasi un terzo degli attentatori ha trascorso un periodo di detenzione in carcere, la maggior parte dei quali non per reati legati al terrorismo. Lo stesso Anis Amri avrebbe subito un processo di radicalizzazione nelle carceri italiane.
Sempre secondo Ispi, 49 su 99 aggressori in occidente (sempre dal 2014 al 2019), avevano precedenti penali per reati come furto, traffico di sostanze stupefacenti, falsificazione di documenti e terrorismo. La questione preoccupa anche le autorità italiane come si legge nel rapporto sulla sicurezza pubblica del 2023.
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