- Il burro è un alimento presente ma non vivamente consigliato nella piramide alimentare della dieta mediterranea, dove si piazza meglio l’olio extra vergine di oliva
- Un burro buono deve molto all’alimentazione delle mucche da latte e al metodo di produzione, dove quello di centrifuga è ritenuto superiore a quello di affioramento
- In Francia esistono tre AOP (Appellation d’Origine Protégée). In Italia, viceversa, non vi è alcuna denominazione IGP o DOP per il burro, considerato spesso un sottoprodotto della lavorazione di Grana Padano e Parmigiano Reggiano
Il burro è il cuore autentico del latte. Prodotto usato da secoli nella cucina italiana, ha vissuto alterne fortune nel racconto di ciò che fa bene o fa male alla salute. Deve giocarsela poi con un altro ingrediente nobile delle tavole nostrane, che è l’olio extra vergine di oliva, alla base della piramide alimentare della dieta mediterranea.
Il burro sta un po’ più su, tra gli alimenti consumabili sì ma consigliabili con molta moderazione. Mettiamoci anche che quello italiano è sempre stato considerato meno buono di quello francese – e di altri burri nordeuropei – ed ecco che il suo posto nel paniere delle bontà gastronomiche italiane non è (ancora) tra i migliori.
La “disfida” tra Francia e Italia esiste, ma a detta degli operatori, è anche un incentivo a fare meglio. Ne è convinta Irene Piazza, casara trentina che fa formaggi nell’azienda agricola di famiglia a Castello Tesino in estate, mentre in inverno porta avanti il progetto Foradori Alimentari della vignaiola Elisabetta Foradori.
Assieme sono impegnate nella produzione di formaggi di montagna d’alta qualità e le bestie di entrambe, nei mesi più rigidi, pascolano tra le vigne: «Quando ho decido di fare il burro», spiega Irene, «ho studiato sui testi francesi perché riconosco la loro maggiore bravura. Ne produco una piccola quantità, solo due mesi l’anno, da fine giugno a fine agosto, quando le vacche sono in alpeggio e mangiano solo erba. Questo vuol dire avere un latte molto giallo e di conseguenza un burro molto giallo, ricco di carotenoidi. La richiesta è tanta, ma da 300 litri di latte ottengo dieci litri di panna che equivalgono a tre chili di burro in tutto».
Il metodo utilizzato dalla casara trentina è quello da affioramento e non da centrifuga. Inoltre, in parte dalla panna fermentata, ovvero dalla crema di latte lasciata fermentare per un giorno intero, vengono innestati dei batteri lattici: «Questo processo dà vita a una fermentazione lattica», continua la casara, «che rende il burro privo di lattosio e più ricco di sapore. Lo so che tutti dicono che per centrifuga il burro è più buono ma la tecnica di affioramento è, per tradizione, l’unica usata in alpeggio, perché non c’erano spazio e soldi per investimenti sull’impiantistica».
Due grandi aree culturali
Piazza ha accennato a due differenti tecniche di produzione del burro. Il burro da affioramento si ottiene in genere dalla panna residua della produzione del formaggio, che viene separata dal siero del latte attraverso il procedimento detto appunto di affioramento, un metodo che necessita anche di ulteriori processi, come la neutralizzazione dell’acidità o la pastorizzazione perché la parte affiorante porta con sé tutta una serie di microorganismi del latte.
Il metodo per centrifugazione – a detta di molti il migliore – lavora sul latte appena munto. Si estrae dunque una percentuale di grasso maggiore rispetto a quella ottenuta con l’affioramento. Ecco la prima grande differenza tra burro francese e burro italiano, il primo ha una sua “vita”, a prescindere che venga o meno prodotto del formaggio, il secondo è stato ritenuto a lungo uno scarto di lavorazione di altri prodotti caseari (non a caso le aree di produzione del Parmigiano Reggiano e del Grana Padano sono i posti dove si produce più burro in Italia).
La matrice di questi differenti approcci molto ha a che fare con le divergenze storiche e culturali tra le due aree geografiche protagoniste – nord Europa e Mediterraneo – come suggeriscono gli studi del professor Giovanni Ballerini, professorre emerito dell’università degli Studi di Parma, e ricercatore appassionato di antropologia alimentare. È nel medioevo, scrive infatti il docente, che si stabilizza la divisione dell’Europa in due grandi aree di cultura alimentare.
Nell’area mediterranea domina incontrastato l’olio d’oliva e poi quello di altri vegetali, mentre nell’area continentale dominano i grassi animali, da quello di maiale al più prezioso e raffinato burro. Questa bipartizione tra grassi vegetali e animali comporta anche pregiudizi, e se il burro nei paesi nordici era ritenuto ricco di virtù terapeutiche e capace di alleviare la fame e la sete, nell’Italia meridionale era considerato pericoloso e causa di terribili malattie, quali la lebbra, in una concezione razzista che si ripete per ogni alimento esotico. Una contrapposizione che in verità, troviamo già nell’opera Naturalis Historia (libro XXVIII) di Plinio il Vecchio, dove lo storico parla del burro come prodotto alimentare il cui consumo distingue i ricchi dai poveri. Sarà proprio questa sua accezione elitaria ad avere, nel corso dei secoli, la meglio, facendo del burro un elemento – e un alimento – di distinzione tra i ceti abbienti e nobiliari.
Francia vs Italia
La Francia rimane il paese al mondo che consuma più burro – circa otto chili a testa all’anno – a fronte di meno di due chili pro capite consumati in Italia (la media Ue è di quattro chili, dati clal.it).
Nel nostro paese il burro è prevalentemente utilizzato come condimento o ingrediente e, in misura trascurabile, come alimento. Il che sarebbe anche alla base della minor qualità del prodotto, come ha ben argomentato il divulgatore scientifico Dario Bressanini nel suo libro Bugie nel carrello, nel capitolo dedicato al burro.
Bressanini spiega come nei paesi che producono burro di ottima qualità, il latte fresco appena munto viene conferito a grandi centri di raccolta, che provvedono immediatamente alla lavorazione per ottenere, a seconda della domanda, burro, latte, panna, formaggi e così via. Motivo per cui, secondo lo scrittore, il miglior burro non lo producono i caseifici ma le centrali del latte. Velocità di produzione e non alterazione della materia si ottengono tramite centrifugazione.
Il burro italiano, soprattutto da affioramento, invece parte da condizioni non ottimali con una panna ottenuta con un processo molto lento e a temperature elevate (che sono indispensabili invece per fare il formaggio), con conseguente proliferazione di microorganismi indesiderati. A questo punto, rivolgendosi ai lettori, scrive: «Vi chiederete perché non si usi la centrifuga anche in Italia».
I tentativi italiani
In Italia questo metodo si usa ma è ancora una nicchia. Un precursore è stato senz’altro Beppino Occelli, produttore di formaggi e di burro a partire dalla metà degli anni Settanta a Farigliano, in provincia di Cuneo: «Erano gli anni del successo della margarina», racconta Occelli, «che appesantiva il gusto di ogni ricetta. Fui il primo in Langa a usare un burro 100 per cento da crema di latte nei tajarin all’uovo con tartufo, ne venne fuori un piatto di tutt’altra eleganza».
Il suo burro è fatto con panna dolce di centrifuga scremata da latte italiano. Il casaro langarolo ha la stima e l’amicizia del bretone Jean Yves Bordier, considerato il miglior produttore di burro al mondo: «Mentre in Francia esistono ben tre Aop (Appellation d’Origine Protégée, corrispettive delle nostre Dop)», continua Occelli, «in Italia ci limitiamo a specificare la quantità di grassi. Sono stato il primo a scrivere sul panetto “burro di centrifuga”, era il 2016, e da lì tante aziende ci hanno seguito, creando una sorta di sottocategoria».
Anche Giovanni Guffanti, quarta generazione dei Guffanti, affinatore di formaggi ad Arona, in provincia di Novara, sottolinea un controsenso burocratico: «In Francia è normale trovare un pezzo di cinque chili di burro nel banco e chiederne un taglio; in Italia no, va venduto confezionato, eppure non specifichiamo se si tratta di un prodotto di centrifuga o di affioramento. Tutt’al più ci lanciamo in fantasiose descrizioni tipo “da pascoli di montagna”».
Altro burro di centrifuga italiano che non c’è, ma che arriverà a fine anno, è quello dell’azienda Salvaderi di Maleo in provincia di Lodi. Qui si parte da una razza di mucche un po’ speciale, la Guernsey, che prende il nome da una piccola isola presente nel Canale della Manica e dove si fa un burro straordinario. Simone Salvaderi vorrebbe fare lo stesso, partendo da un latte, il suo, buonissimo: «È definita la razza “dal latte d’oro”», spiega Salvaderi, «per il suo colore paglierino e siamo ancora i soli in Italia ad avere un allevamento totalmente di Guernsey. Produrremo burro di centrifuga che avrà le caratteristiche del latte di partenza, ovvero presenza di beta caseina A2 A2, che rende il latte più digeribile e di beta carotene, che questa mucca non assimila e quindi finisce tutto nel latte. C’è ancora da aspettare qualche mese e poi sarà disponibile». Intanto le vacche dal latte d’oro si godono i pascoli di erbe e di fiori del lodigiano.
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