- Quello che viene definito «il più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana» è una macchinazione che resta sospesa nel niente, indagini inquinate e omertà istituzionali ma nessun colpevole.
- Non giudichiamo i giudici è piuttosto la sostanza che ci restituisce il verdetto che colpisce, che annichilisce: il depistaggio c’è stato ma è prescritto per il tempo passato.
- Il 19 luglio si avvicina e la spaccatura fra i figli del procuratore e la magistratura è sempre più netta, la famiglia non andrà alle manifestazioni pubbliche «sino a quando non conosceremo la verità» e i magistrati che intanto si esibiscono fra mega convegni e talk show «per ricordare Paolo».
E chi se lo sarebbe mai aspettato un anniversario come questo, così cupo e carico di cattivi presagi? Chi avrebbe immaginato che, trent’anni dopo, saremmo tornati al punto di partenza?
È da un po’ di tempo che vado scrivendo di avere la dolorosa sensazione che dalle stragi siciliane non siano passati trenta ma trecento anni, un 1992 che è lontano, lontanissimo, un 1992 che forse non c’è mai stato per come ce lo ricordiamo.
Comunque sia. questo è un altro anniversario che si celebra senza giustizia, un anniversario avvolto nell’ipocrisia, sprofondato nella menzogna. Sappiamo poco su perché hanno fatto saltare in aria Paolo Borsellino, forse ne sappiamo anche meno di prima.
Una sfilata di maschere
Spesso nei nostri commenti insistiamo sulle verità giudiziarie che non bastano, perché non possono spiegarci compiutamente ciò che è accaduto fra il 23 maggio e il 19 luglio, quei cinquantasei giorni che dividono Capaci da via Mariano D’Amelio.
Ma dobbiamo prendere atto che pezzi di stato non hanno fatto tutto quello che dovevano fare per scoprire chi ha voluto le bombe, chi ha tenuto l’Italia sotto ricatto.
E non è azzardato affermare, che quei pezzi di stato, al contrario hanno fatto di tutto per sviarci e per confonderci.
Fra meno di una settimana si riproporrà l’ormai insopportabile sceneggiata della commemorazione “per i caduti di via D’Amelio”, almeno da un po’ di anni non si ricorda più solo Paolo Borsellino ma si aggiungono anche i nomi di Agostino Catalano, di Vincenzo Li Muli, di Emanuela Loi, di Claudio Traina e di Eddie Walter Cosina, i cinque poliziotti morti con il procuratore che prima venivano sempre frettolosamente liquidati come "quelli della scorta”.
Non mancheranno pennacchi e fanfare, ma credo che la doppiezza che ci riserverà questo trentennale non abbia precedenti. Una sfilata di maschere.
Cosa ci restituisce il verdetto
In un’appiccicosa Sicilia è arrivata ieri l’altro da Caltanissetta anche la sentenza di assoluzione per i tre poliziotti accusati di avere indotto un balordo di borgata a dire il falso e ad accusare innocenti, quel Vincenzo Scarantino che una nota dei servizi segreti aveva trasformato da mezzo squilibrato quale era in un boss di Cosa nostra.
Da lì si è originato quello che è definito «il più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana», una macchinazione che resta sospesa nel niente, indagini inquinate e omertà istituzionali ma nessun colpevole.
Con quelle parole – «il più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana» – ripetute da tutti come un mantra e destinate a diventare una formula vuota da agitare anche sul palco delle cerimonie del 19 luglio.
Come si fa con la famosa agenda rossa scomparsa, una sorta di scatola nera delle stragi, un totem. L’agenda rossa, l’agenda rossa: viene invocata ma nessuno sa davvero cosa c'era fra quelle pagine e probabilmente nessuno lo saprà mai.
Non vogliamo entrare nel merito del verdetto che ha assolto i tre poliziotti per calunnia ma, caduta per loro l’aggravante mafiosa, sconcerta il risultato finale, lo squarcio che si è aperto: il depistaggio c’è stato ma è stato prescritto.
Il «più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana» cancellato per il tempo trascorso. Ripeto: non giudichiamo i giudici è piuttosto la sostanza che ci restituisce il verdetto che colpisce, che annichilisce.
I tre poliziotti erano “piccoli” imputati ma sopra di loro c'era il capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, c’era il capo della polizia Vincenzo Parisi, c’era il procuratore Giovanni Tinebra che affidò le investigazioni sul massacro di via D’Amelio ai servizi segreti. C’è tanto di indicibile intorno alla morte di Borsellino.
Palermo senza confini
Il 19 luglio si avvicina e la spaccatura fra i figli del procuratore e la magistratura è sempre più netta, la famiglia non andrà alle manifestazioni pubbliche «sino a quando non conosceremo la verità» e i magistrati che intanto si esibiscono fra mega convegni e talk show «per ricordare Paolo».
Non c’è giorno a Palermo nell’ultima settimana che non venga deposta una corona di fiori, la scopertura di una lapide, in prima fila sempre il sindaco Roberto Lagalla sponsorizzato in campagna elettorale dai condannati per reati di mafia Totò Cuffaro e Marcello Dell’Utri.
Non è riuscito ancora a formare la giunta ma non si perde un appuntamento antimafioso: visita al monumento delle vittime di Cosa Nostra, discorso per i carabinieri uccisi dall'autobomba ai Ciaculli, inaugurazione del Muro della Legalità in piazza Aragonesi.
È stato perfino invitato alla presentazione di un libro di un giornalista delle Iene, un romanzo su Matteo Messina Denaro. È una Palermo senza più confini.
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