- Patrick Zaki è stato condannato a tre anni di carcere per “diffusione di notizie false” (per aver scritto cose assolutamente vere a proposito della discriminazione subita dai cristiani copti in Egitto).
- Quello del tribunale di Mansura è un verdetto assurdo e scandaloso. Lo aspettano quattordici mesi di carcere, se non interverranno fatti nuovi.
- Mentre scrivo, il governo italiano ha detto soltanto che «il nostro impegno per una soluzione positiva del caso di Patrick Zaki non è mai cessato, continua, abbiamo ancora fiducia». Sarebbe importante che prendesse posizione ufficialmente, protestando per la condanna di Patrick. Lo stiamo chiedendo.
Hanno tappato nuovamente la voce a un difensore dei diritti umani, a una persona generosa, a un amico.
Quello del tribunale di Mansura è un verdetto assurdo e scandaloso. Al termine dell’undicesima udienza del processo che lo vedeva imputato del reato di “diffusione di notizie false” (per aver scritto cose assolutamente vere a proposito della discriminazione subita dai cristiani copti in Egitto), Patrick Zaki è stato condannato a tre anni di carcere.
Dopo 22 mesi di carcere durissimo e un processo iniziato più di un anno fa, l’immagine di Patrick Zaki trascinato via dall’aula del tribunale di Mansura è terrificante. Lo aspettano quattordici mesi di carcere, se non interverranno fatti nuovi.
Dal punto di vista giudiziario, le strade sono ristrettissime. Il tribunale d’emergenza che ha condannato Patrick non fa sconti né appelli.
C’è un’unica eccezione alla regola: il processo contro un altro studente, Ahmed Samir Santawy, dell’Università centrale europea di Vienna, condannato e poi assolto al termine di un secondo processo dopo che il primo era stato annullato.
Ma, ammesso che questa strada sia percorribile, bisognerà capire quanto tempo ci metteranno le autorità giudiziarie egiziane a dare il loro assenso. C’è un ulteriore appiglio, una decisione della procura generale sul funzionamento dei tribunali di emergenza, emessa nel 2017: «Se l’imputato viene processato in libertà condizionale e condannato ad una pena restrittiva della libertà, deve essere rilasciato immediatamente senza eseguire la pena, in attesa di quanto decida l’autorità di certificazione in merito alla sentenza emessa nei suoi confronti».
Dopo la scarcerazione, alla fine del 2021, e la laurea di due settimane fa, in molti avevano pensato che andasse bene così. Hanno celebrato lo “Zaki libero” e lo “Zaki dottore laureato”, si sono abituati alla sua presenza sui social, ai suoi interventi online ovunque lo invitassero a parlare.
Hanno via via perso di vista lo “Zaki imputato”. Hanno dimenticato che in Egitto imputato è sinonimo di condannato, che la giustizia è uno strumento nelle mani di un sistema che reprime il dissenso pacifico, il giornalismo indipendente, l’attivismo in favore dei diritti umani.
Mentre scrivo, il governo italiano ha detto soltanto che «il nostro impegno per una soluzione positiva del caso di Patrick Zaki non è mai cessato, continua, abbiamo ancora fiducia». Sarebbe importante che prendesse posizione ufficialmente, protestando per la condanna di Patrick. Lo stiamo chiedendo.
Dieci anni di ottime relazioni, salvo brevi periodi, tra Italia ed Egitto, fatte di omaggi, salamelecchi, vendita di armi in cambio di idrocarburi, che hanno fatto danni enormi a tutte le persone che difendono i diritti umani in Egitto: Patrick ne è l’esempio più evidente.
Amnesty International, le istituzioni accademiche e politiche di Bologna insieme alla società civile della città sono state via via lasciate sole a sé stesse, accompagnate solo da alcuni parlamentari. Di nuovo Bologna sta scendendo in piazza. È importante che Patrick lo sappia e lo saprà. Ma non possono essere lasciati soli, Patrick e Bologna.
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