Se ci venisse chiesto cosa vorremmo mangiare come ultimo pasto su questa terra, saremmo più scandalizzati dalla consapevolezza di conoscere data e ora della nostra morte o dalla richiesta di pensare al cibo poco prima di essere consegnati al boia? La domanda è sciocca e la risposta ovvia: non c’è nulla di più innaturale di sapere quando e come si morirà e nessun moribondo lo sa con tanta precisione quanto un condannato a morte.

Eppure, è significativo che alla speciale disperazione di quest’uomo archetipico - molti i romanzi e i pamphlet politici a lui dedicati, da L’ultimo giorno di un condannato a morte di Victor Hugo a Lo straniero di Camus - il mondo ha piuttosto unanimemente risposto concedendo un ultimo desiderio alimentare: un pasto che sappia contenere tutta la nostalgia per la vita di cui si è capaci.

Celebre precedente

Non è chiaro quando e dove la tradizione abbia avuto inizio, ma a pensarci bene ognuno di noi conserva nell’inconscio le tracce di un celebre precedente anche se non l’ha mai letto in questi termini: fu Gesù Cristo il primo ad assurgere l’ultima cena a simbolo di dignità da parte di un consapevole condannato a morte. Disse che in quel pane c’era lui e in quel vino c’era ancora lui. Che in quel pane e in quel vino, ogni volta e per sempre ci sarebbe stato lui, e con lui ogni uomo.

Siccome tutto ciò che fece Gesù fu in un certo senso un gesto politico, prima ancora che religioso - davanti al tribunale romano gli venne formulata un'accusa politica, la sedizione e il reato di lesa maestà per essersi proclamato "re dei Giudei" - la scelta dell’ultimo pasto in vita da parte di chi ha violato il patto sociale continua ad essere una rivendicazione ribelle, un messaggio molto più che un piacere fisico.

Contemporaneamente, il concessore - che prima ancora che l’istituzione penitenziaria è lo Stato e quindi i cittadini e dunque in senso lato ognuno di noi - concedendo una buona cena sta riconoscendo tanto la propria umanità quanto della del condannato. Il rapporto che si instaura è vicendevole, laddove invece tutto ciò che viene prima è sopraffazione: del primo sulla vittima al momento del fatidico reato, del secondo sul carnefice al momento della scandalosa vendetta prevista de iure. Nella cena alla carta del condannato a morte avviene simbolicamente il miracolo della riconciliazione dopo anni di vessazioni e prima del finale tradimento.

Le testimonianze

«Mi chiamo Michael Taylor e sono nel braccio della morte dell’Alabama. Quando mi hanno arrestato dovevo ancora compiere 19 anni. Sono stato condannato a morte dopo un processo durato tre giorni in tutto. Ogni uomo condannato a morte passa 23 ore della sua giornata in una cella di pochi metri. Negli ultimi due anni, due uomini sono morti per carenza di cure mediche. Il cibo è orrendo. Ogni giorno ci passano polpette di soia, riso e patate. Lo Stato spende circa 65 centesimi al giorno per la dieta di un condannato a morte. L’attesa della morte, dicono le statistiche, dura mediamente nove anni e l’Alabama rientra in questa media. Una settimana prima di morire, si ha l’obbligo di trasferirsi nella cella della morte, da dove si assiste alle prove dell’esecuzione: si vede persino il corridoio invaso dalle scintille provenienti dalla sedia sulla quale si dovrà morire. Il giorno dell’esecuzione, si può ricevere un pasto diverso che consente finalmente alimenti che non sono quelli che ti hanno servito per anni».

Queste parole risalgono al 2002 e furono spedite a Bianca Cerri, scrittrice e attivista italiana che intrattenne lunghi scambi epistolari con detenuti statunitensi nel braccio della morte. Quali sono “gli alimenti che non sono quelli che ti hanno servito per anni?” Cosa chiede un uomo in fin di vita, da che zona remota della sua vita pesca?

Cosa si merita

Luigi XVI prima di essere condotto alla ghigliottina nel gennaio 1793 richiese pollo fritto, pane, manzo bollito, purè di rape, due alette di pollo addizionali, un contorno di verdure e per finire una fetta di torta margherita. Da bere due bicchieri di vino diluito con acqua e un bicchiere di vino di Málaga. Si trattò bene: d’altronde è difficile, anche in punto di morte, immaginare di meritare qualcosa di meno di quanto sia ha avuto in vita.

Roger Casement, diplomatico e attivista umanitario che si batté per denunciare gli orrori compiuti dai colonizzatori in Congo e in America Latina, fu accusato di alto tradimento della patria inglese e sentenziato per impiccagione nel 1916. Chiese di poter mangiare un’ostia consacrata. Si era convertito al cattolicesimo prima della sua esecuzione e dichiarò di voler andare alla morte con il corpo del suo Dio come ultimo pasto: fu una presa di posizione, proprio come le ragioni che l’avevano portato alla condanna.

Ma veniamo ai casi più recenti. Kenneth Eugene Smith, ucciso in Alabama a gennaio di quest’anno, chiese una bistecca, delle patate fritte, del pane tostato e delle uova. Una scelta tradizionale, simile a quella di molti condannati americani. Sebbene l'Alabama solitamente fornisca l'ultimo pasto nel pomeriggio dell'esecuzione, a Smith il cibo è stato servito alle 10 del mattino per ridurre al minimo la possibilità che vomitasse nella maschera mentre veniva pompato l’azoto che l’avrebbe ucciso rendendolo il primo uomo giustiziato con questo metodo.

La questione della fame

È difficile immaginare cosa possa provare un essere umano nelle ore precedenti alla sua morte annunciata. Tra tutti i sentimenti e le sensazioni, la fame è forse tra le più difficili da supporre perché mangiare è un istinto vitale che stride con ciò che verrà. Fame infatti non ne aveva, disse lasciando il banchetto intonso, il detenuto che ordinò due bistecche fritte alla texana ricoperte di salsa gravy con cipolle a fette, un triplo cheeseburger con pancetta e condimenti a parte, una frittata di formaggio con carne macinata, pomodori, cipolle, peperoni e jalapeños, una grande ciotola di gombo fritto con ketchup, un chilo di barbecue con mezzo filone di pane bianco, tre fajitas con condimenti, una pizza Meat Lovers, tre birre alla spina, una vaschetta di gelato alla vaniglia Blue Bell e una porzione di fudge al burro di arachidi con arachidi sbriciolate. La richiesta di Lawrence Russel Brewer fu accolta, ma lui rifiutò il pasto dicendo, appunto, che non aveva fame. Lo sfregio finale di quest’uomo portò lo stato del Texas a dismettere la pratica di concedere un’ultima cena a scelta.

L’elenco dei gesti simbolici potrebbe andare avanti a lungo: da chi chiese una singola oliva con nocciolo a chi avanzò mezza fetta di torta, mettendola da parte “per dopo”. Il fotografo neozelandese Henry Hargreaves ne è rimasto affascinato, ha ricreato gli ultimi pasti di alcuni condannati a morte e li ha fotografati. Il progetto si chiama No seconds ed è fortemente evocativo. Il cibo, racconta Hargreaves, permette un’umana empatia e vicinanza con uomini a cui ci viene proibito di pensare come nostri simili. «Ho percepito come un’esperienza intensa il fatto che tramite il cibo abbia potuto pensare a queste persone come a dei veri esseri umani».

A riprova che l’equivalenza tra carcerato e carceriere, tra omicida e boia sussiste, citiamo nuovamente Michael Taylor, dalla sua lettera a Bianca Cerri: «Quando l’esecuzione è finita, arriva l’infermiera per sentire se il polso non batte più. Il giorno dopo viene fatta l’autopsia. Quando il medico compila il certificato di morte, alla voce causa del decesso scrive omicidio».

© Riproduzione riservata