In almeno tre regioni italiane, le persone detenute che lavorano in carcere dovranno essere ridotte entro fine anno, perché i soldi stanziati dal ministero non bastano.

Il taglio al personale dovrebbe riguardare in particolare i detenuti caregiver e chi opera nel settore culturale. «Dal suo insediamento il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha più volte parlato dell’importanza del lavoro in carcere per il reinserimento sociale delle persone detenute e per abbattere il tasso di recidiva, ma nella pratica si sta facendo l’esatto opposto».

Queste le parole di Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale Antigone, in riferimento alla nota del Provveditorato regionale di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta che chiede ai direttori carcerari di ridurre la spesa dedicata ai detenuti lavoratori.

Diminuire le ore

I fondi resi disponibili per il pagamento dei detenuti che lavorano in carcere, si legge nella nota, sono meno della metà rispetto a quelli richiesti. Le direzioni carcerarie delle tre regioni avevano chiesto a maggio due milioni di euro per garantire la sostenibilità dei detenuti lavoratori nei loro istituti, ma i fondi che sono stati assegnati di recente al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sono inferiori al 50 per cento del fabbisogno. La richiesta del Provveditorato, arrivata a ottobre, è quindi quella di ridimensionare il numero di detenuti lavoratori il prima possibile per rispettare il budget messo a disposizione per il 2024.

La raccomandazione è in particolare quella di diminuire le ore di impiego e valutare un taglio dei detenuti che lavorano nell’assistenza alla persona, come bibliotecari e “scrivani”. Questi ultimi si occupano di scrivere le cosiddette domandine, cioè i documenti che servono ai detenuti per rivolgere le proprie richieste ad amministrazione, mediatori culturali o psicologi, tra gli altri.

La loro funzione, per chi vive in carcere, è spesso fondamentale, così come quella di coloro che svolgono il lavoro di caregiver per altri detenuti disabili o che non sono pienamente autosufficienti. I bibliotecari contribuiscono poi al mantenimento di uno dei pochi spazi culturali negli istituti di pena, dove i detenuti hanno accesso all’apprendimento, al confronto e allo sviluppo della creatività, come previsto dall’ordinamento penitenziario.

Lavori intramurali come questi, oltre a essere tra le poche attività che permettono alle persone detenute di contrastare il disagio diffuso, affrontare le spese penitenziarie e giudiziarie e disporre di un sostentamento economico, consentono al carcere stesso di funzionare. Tra gli altri lavori svolti dai detenuti ci sono infatti la distribuzione del vitto, le manutenzioni ordinarie, interventi di carpenteria e idraulica. Negli ultimi anni, in regioni come la Sicilia, molte strutture sono state rimesse in sesto attraverso lavori di manutenzione svolti proprio dai detenuti assunti.

L’importanza del lavoro

Nelle carceri italiane, tra sovraffollamento costante e condizioni di vita precarie, il lavoro e la formazione sono riconosciuti dalla Costituzione come strumenti di reintegrazione sociale dei reclusi. Diverse persone detenute raccontano che il lavoro ha rappresentato per loro un cambiamento sostanziale: «Mi alzo la mattina con la voglia di fare sempre di più, di migliorarmi. Mi sono accorta per la prima volta nella mia vita di essere brava in qualcosa».

Per alcune di loro avere un impiego ha rappresentato uno strumento di emancipazione economica e non solo: «Ho lottato con mio marito che era molto contrario che io lavorassi e con tenacia e tanta voglia di cominciare invece ce l’ho fatta. Ora ho la possibilità di sentirmi utile verso i miei figli, a cui riesco a non far mancare i beni di prima necessità».

Secondo i dati ministeriali, dei circa 60 mila detenuti e detenute in Italia, solo il 33 per cento ha un contratto di assunzione regolare, di cui l’85 per cento per conto degli istituti penitenziari. Se il lavoro in carcere assomiglia a un privilegio, nelle regioni in questione, rischia di diventarlo ancora di più.

«Alla luce di questa nota, i direttori dovranno comunicare ai detenuti che o smettono di lavorare o iniziano a fare molte più ore di lavoro non pagate, il che già avviene, ma verranno duplicate. Oppure dovranno inventarsi delle turnazioni e chiudere alcuni servizi» dice Michele Miravalle, responsabile dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone.

La risposta del ministero

In un comunicato, il ministero della Giustizia afferma di aver previsto a livello nazionale un piano di investimenti straordinario destinato ad aumentare la retribuzione del lavoro intramurale dei detenuti, le opportunità di lavoro in carcere e la formazione professionale. Per il 2024 il budget ammonta a 128 milioni di euro. «L’aumento delle risorse», scrive il ministero, «ha riguardato anche il Provveditorato regionale del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta: al Prap (Provveditorato ndr) di Torino, esclusivamente per la retribuzione del lavoro dei detenuti, nel 2023 sono stati assegnati fondi pari a euro 12.898.178, saliti nel 2024 a euro 13.243.993».

La garante per i diritti delle persone private della libertà del comune di Torino Monica Cristina Gallo ritiene anomala la risposta del ministero sul fatto che in Piemonte non si stia verificando quando dichiarato dal Provveditorato e su questo chiede chiarezza. Il lavoro per i detenuti intanto resta un’esigenza. «In questi anni abbiamo fatto migliaia di colloqui nel carcere di Torino. Se al primo posto il 70 per cento chiede l’accesso alla salute, il 60 chiede di avere un lavoro» spiega la garante.

Per Bruno Mellano, garante dei detenuti del Piemonte, l’aumento dei fondi a disposizione degli istituti della regione in questi anni ha permesso di potenziare i posti di lavoro per chi sconta una pena, nell’ottica di far scendere le tensioni in carcere. Tuttavia i soldi a disposizione, a livello nazionale, non sono mai stati adeguati. «La novità della circolare del Provveditorato è la tassatività di far rientrare i conti sulla base di un budget del tutto insufficiente per postazioni lavorative che erano state di fatto incentivate. Si deve auspicare la previsione di fondi integrativi, anche al limite nella nuova annualità».

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