Nella mattinata di lunedì una delegazione di parenti delle vittime dell’esplosione che sconvolse il porto di Beirut e tutto il Libano il 4 agosto del 2020 ha incontrato in Vaticano il papa e il segretario di Stato, Pietro Parolin. La delegazione è stata ricevuta da Francesco, quindi il gruppo ha preso parte alla messa celebrata dal cardinale Parolin.

Il gruppo, composto da circa 20 persone, comprendeva alcuni portavoce dei parenti delle vittime, come Nazih el Adem, padre di Krystel el Adem, William Noun, fratello del pompiere Joe Noun e l’avvocato Cécile Roukoz, il cui fratello è rimasto ucciso nell’esplosione. Con loro pure il nunzio apostolico in Libano, Paolo Borgia.

Certamente c’è un senso pastorale dell’incontro, dovuto alla solidarietà e alla vicinanza che la Santa sede vuole esprimere a quanti hanno perso una persona cara nel gravissimo incidente di quattro anni fa. Ma, allo stesso tempo, non può sfuggire il significato politico di una scelta che cade proprio nel momento in cui il Libano è sempre più al centro del conflitto mediorientale.

«Con voi – ha detto Francesco – chiedo verità e giustizia. Tutti sappiamo che la questione è complicata e spinosa, e che pesano su di essa poteri e interessi contrastanti. Ma la verità e la giustizia devono prevalere su tutto. Sono passati quattro anni; il popolo libanese, e voi per primi, avete diritto a parole e fatti che dimostrino responsabilità e trasparenza».

Un’esplosione spaventosa

Sono 4 anni che ogni tentativo di fare chiarezza su quei fatti e sulle responsabilità che provocarono la morte di 246 persone viene bloccato da vari settori della classe politica libanese. Il 4 agosto del 2020, infatti, un incendio scoppiato nel porto di Beirut coinvolse anche un hangar nel quale erano stoccati da 7 anni circa tre tonnellate di nitrato di ammonio, un componente chimico con il quale è possibile produrre potenti esplosivi.

La distruzione causata da due esplosioni avvenute in rapida successione, fu spaventosa; oltre alle vittime, si contarono 700 feriti e 300mila sfollati, interi quartieri vennero ridotti in macerie. D’altro canto si calcola che l’esplosione potesse essere paragonata a quella di mille chili di tritolo.

Senza contare che le conseguenze economiche di lunga durata furono drammatiche per il Paese: la distruzione di un’infrastruttura commerciale di prim’ordine in tutto il Medio Oriente ha lasciato strascichi pesanti. Come è stato possibile che una quantità simile di esplosivo, altamente instabile dal punto di vista chimico, rimanesse per ben 7 anni “parcheggiata” nel porto di Beirut?

Le indagini della magistratura libanese sono state ostacolate dai poteri che paralizzano il Libano da anni, a cominciare da Hezbollah e dai suoi alleati, ma non solo. Sta di fatto che la visita dei parenti delle vittime della strage del porto in Vaticano s’inserisce in un contesto politico e militare particolarmente delicato per il paese dei cedri; lo stesso Parolin si era recato a Beirut nello scorso giugno con due obiettivi: in primo luogo, cercare di sbloccare una crisi politica e istituzionale che tiene fermo il paese dal 2022.

Da quell’anno il Libano ha un governo dimissionario e si trova senza un presidente. Quest’ultimo, per consuetudine costituzionale, spetta ai cristiani, una delle componenti fondamentali della società libanese. Il segretario di Stato vaticano ha esortato la chiesa maronita, in comunione con Roma, a ricercare la massima unità fra le varie componenti cristiane, in dialogo con le altre comunità, in primis musulmane e druse, per dare una soluzione alla crisi.

Parolin ha poi portato un messaggio chiaro: il Libano non cessi di essere quel laboratorio unico di una possibile convivenza plurale in un Medio Oriente devastato dalle derive settarie, dalle guerre e dalla presenza di milizie che spadroneggiano su territori e popoli. Il pontefice, nel suo discorso ai familiari delle vittime, in tal senso ha detto: «Con voi imploro dal Cielo la pace che gli uomini faticano a costruire in terra. La supplico per il Medio Oriente e per il Libano. Il Libano è, e deve restare, un progetto di pace». Citando Giovanni Paolo II, ha aggiunto: «Il Libano è un messaggio, e questo messaggio è un progetto di pace». «La sua vocazione», ha affermato ancora Francesco, «è di essere una terra dove comunità diverse convivono anteponendo il bene comune ai vantaggi particolari, dove religioni e confessioni differenti si incontrano in fraternità».

È la prima volta, in effetti, che la Santa sede, se da una parte non rinuncia a invitare i cristiani del Libano a collaborare con tutti, dal punto di vista diplomatico di fatto prende posizione contro lo strapotere di Hezbollah, sia pure indirettamente. In effetti osservatori internazionali e indagini giudiziarie convergevano nell’attribuire al “partito di Dio”, guidato da Nasrallah, alleato dell’Iran, la responsabilità dell’esplosione del 4 agosto 2020; il materiale esplosivo conservato nel porto sarebbe servito ad alimentare i vari conflitti nei quali è impegnato.

© Riproduzione riservata