Le imprese che operano nel campo dei dispositivi medicali lamentano che la pronuncia con cui la Corte costituzionale ha riconosciuto la legittimità della normativa sul payback possa causare gravi danni al settore stesso. Ma la responsabilità non è della Consulta, bensì del governo che ha adottato il meccanismo e di quello che l’ha attuato, senza valutarne preventivamente gli impatti negativi
Il payback sui dispositivi medicali è legittimo, ha deciso qualche giorno fa la Consulta. Le imprese del settore lamentano che la pronuncia, riconoscendo la costituzionalità della normativa che pone a loro carico l’obbligo di risanare parte degli eccessi della spesa regionale per tali dispositivi, causerà chiusure aziendali, riduzione del personale e molto altro. Proviamo a spiegare.
La storia
Nel 2011 fu sancito per legge che, in caso di sforamento da parte di una regione del tetto fissato annualmente alla spesa per dispositivi medici, la regione stessa coprisse il ripianamento.
Nel 2015 fu introdotto normativamente il cosiddetto payback: una parte di tale sforamento – il 40% per il 2015, il 45% per il 2016 e il 50% dal 2017 in poi – sarebbe stato a carico delle aziende fornitrici «in misura pari all’incidenza percentuale del proprio fatturato sul totale della spesa per l’acquisito di dispositivi medici a carico del Servizio sanitario regionale». La normativa sul payback è rimasta sulla carta fino al luglio 2022, quando un decreto del ministero della Salute certificò l’ammontare dello sforamento per gli anni 2015-2018. Poi, nell’agosto 2022, il decreto Aiuti bis stabilì la procedura di determinazione dell’ammontare del ripiano a carico delle singole imprese.
Nel marzo 2023, con decreto-legge, fu istituito un fondo statale da assegnare pro-quota alle regioni che nel triennio considerato avessero sforato il tetto di spesa e si consentì alle aziende che rinunciassero a contestare in giudizio i provvedimenti di pagamento di versare solo il 48% della propria quota di ripiano.
L’assurdità del meccanismo
Nel dicembre 2022, su queste pagine rilevammo l’assurdità del meccanismo. Se le regioni, al fine di acquisire dispositivi medicali, bandiscono gare per un importo superiore al fondo sanitario a disposizione, cioè spendono più soldi di quanto sarebbe loro consentito, appare illogico che poi spetti alle aziende private fornitrici di tali dispositivi – le quali hanno vinto delle gare nel rispetto delle regole previste – ripianare parte dello sforamento.
Anche perché tutto ciò determina una situazione di incertezza per le imprese del settore, obbligate ad accantonare risorse, non sapendo se negli anni successivi alla gara dovranno concorrere al ripiano dell’ammanco regionale.
Le sentenze della Corte costituzionale
Qualche giorno fa, con due sentenze (n. 139 e n. 140) la Corte costituzionale si è pronunciata sul payback. La prima ha dichiarato incostituzionali le disposizioni che consentivano solo alle imprese che avessero rinunciato al contenzioso la diminuzione della rispettiva quota di ripianamento. Di conseguenza, a tutte le imprese fornitrici è ora concessa la riduzione al 48% dell’importo da versare per il payback.
Con l’altra sentenza, la Corte ha riconosciuto come non fondate le questioni di legittimità costituzionale circa la legge del 2015, istitutiva del meccanismo. I giudici hanno rilevato che esso presenta di per sé diverse criticità, ma non comprime irragionevolmente la libertà di impresa. Il payback, infatti, impone alle aziende del settore «un contributo solidaristico, correlabile a ragioni di utilità sociale, al fine di assicurare la dotazione di dispositivi medici necessaria alla tutela della salute in una situazione economico-finanziaria di grave difficoltà»; e «non risulta neppure sproporzionato, alla luce della significativa riduzione al 48 per cento dell’importo originariamente posto a carico delle imprese».
Gli impatti non stimati
Secondo lo studio “Analisi dei meccanismi di ripartizione del payback per le imprese della filiera dei dispositivi medici”, elaborato da Nomisma nel maggio 2023, il payback colpisce maggiormente le imprese meno strutturate, condizionandone l’operatività e, in molti casi, la stessa esistenza. Peraltro, c’è anche il rischio che l’uscita di tali imprese dal mercato determini non solo una riduzione di gettito per l’erario, ma anche una «minore concorrenza e, conseguentemente, un abbassamento della qualità dei dispositivi e un innalzamento generalizzato dei prezzi (per ammortizzare il «costo» del payback)».
La “colpa” dei danni innescati dal payback non è della Consulta, come qualcuno prova a dire, ma di chi ha adottato la relativa normativa – il governo di Matteo Renzi – e di chi l’ha attuata – il governo di Mario Draghi – senza valutare preventivamente gli impatti negativi che essa avrebbe potuto avere. Se il legislatore, cioè la politica, continua a non assumersi le proprie responsabilità, i cittadini proseguiranno ad allontanarsi dalla politica stessa. E questo è un danno ulteriore.
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