Dopo l’omicidio del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, avvenuto a Ficuzza il 20 agosto 1977, Mario Francese continuò a concentrare il suo impegno di ricerca sugli interessi mafiosi connessi alla diga Garcia, cogliendone i nessi con i più gravi fatti di sangue verificatisi nel territorio circostante
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Dopo l’omicidio del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, avvenuto a Ficuzza il 20 agosto 1977, Mario Francese continuò a concentrare il suo coraggioso ed intelligente impegno di ricerca, elaborazione e diffusione delle notizie sugli interessi mafiosi connessi alla diga Garcia, cogliendone i nessi con i più gravi fatti di sangue verificatisi nel territorio circostante.
Uno straordinario interesse è riscontrabile nella lunga inchiesta giornalistica di Mario Francese, pubblicata in cinque puntate sul "Giornale di Sicilia" nel mese di settembre 1977, con il titolo: “L'incredibile storia di appalti e delitti per la diga Garcia”.
Precisamente, in data 4 settembre 1977 apparve sul "Giornale di Sicilia" il seguente articolo di Mario Francese:
L'incredibile storia di appalti e delitti per la diga Garcia.
Dal più arido latifondo la mafia sa cavare l'“oro”.
Grossi gli interessi che hanno fatto saltare il tradizionale “equilibrio” in tre province
La diga di Garcia, interamente finanziata dalla Cassa per il Mezzogiorno su progetto del consorzio di bonifica dell'alto e medio Belice, a che cosa servirà? E perché attorno alla diga si è creato un deserto di mafia, in cui oscuri interessi hanno scatenato contrasti, appetiti e una corsa quasi piratesca per l'aggiudicazione degli appalti di opere che dovranno convogliare le acque del serbatoio di Garcia verso Trapani ed Agrigento? Il direttore del consorzio di Bonifica dell'alto e medio Belice dottor Mirto mi ha anticipato, pochi giorni prima della soppressione a Ficuzza del colonnello Giuseppe Russo, che i consorzi dell'alto e medio Belice, Delia - Nivolelli e basso Belice - Carboi hanno già presentato alla Cassa del Mezzogiorno il progetto di massima per l'irrigazione di 21 mila ettari di terreno, ricadente nei tre consorzi (trapanese e agrigentino). Il costo delle opere di convogliamento dell'acqua, dalla diga (tubazioni principali) fino alle bocche di utenza, è previsto in 110 miliardi. Il progetto è in fase di approvazione e molte sono le imprese, tra cui la Saiseb di Roma (di cui il colonnello Russo era diventato consulente) che aspirano ad eseguire le opere.
Lo stesso dottor Mirto ha riferito che altri 7 milioni di metri cubi di acqua della diga Garcia saranno destinati ad uso potabile «a servizio - dice - di alcuni comuni del trapanese, secondo le previsioni del piano generale delle acque». Ed anche per gli impianti (tubazioni principali) di trasferimento di quest'altra imponente massa d'acqua è stato presentato alla Cassa del Mezzogiorno un altro progetto che prevede una spesa aggirantesi (con i prezzi di inizio 1977) tra i 60 e i 70 miliardi. «Il costo dell'invaso di Garcia - precisa il dottor Mirto - tra espropriazioni, lavori, spese generali e Iva, al momento è di 47 miliardi, interamente finanziati dalla Cassa del Mezzogiorno. Ma le opere pubbliche previste nello schema “Garcia” comprendono - ha aggiunto - oltre lo sbarramento per la creazione del serbatoio, la condotta di adduzione e la rete di distribuzione irrigua, anche lavori di sistemazione idraulica e forestale, a difesa dell'invaso, viabilità di bonifica, reti drenanti ed altre opere di conservazione del suolo». Non va dimenticato che la diga sta sorgendo in una zona fortemente sismica e già duramente colpita nel 1968 dal terremoto.«L'ammontare globale degli investimenti pubblici - conclude Mirto - può valutarsi in circa 140 miliardi, oltre naturalmente i circa 110 miliardi per il convogliamento di acqua nei tre consorzi che ne hanno fatto richiesta e la settantina di miliardi occorrenti per fornire a Trapani acqua potabile».
Somme imponenti, quindi, per l'esecuzione dello schema “diga - Garcia” che dovrebbe realizzarsi nell'arco di un decennio. Dalla contrada Gammari, quartiere residenziale di don Peppino Garda, si domina la suggestiva vallata di oltre 900 ettari di terreno, fiorenti vigneti in gran parte, che farà da letto alla enorme diga. «Una diga immensa - dice un piccolo contadino, privilegiato dalla riforma agraria - che però ci lascia perplessi. Io qui ho avuto qualche ettaro di terra dalla riforma e l'ho coltivata a vigneto. Ma le nostre vigne, senza acqua, producono meno di un terzo. Ci vuole acqua nelle stagioni calde e ritengo che, a noi piccoli proprietari, come ai grossi la diga non porterà nessun beneficio. Potremo ammirare l'immensa distesa di acqua del più grande serbatoio del palermitano. Ma per quel che si sente dire con una certa insistenza, di quest'acqua noi non ne usufruiremo se è vero, come pare dai progetti del Consorzio del medio ed alto Belice, che la diga dovrà servire zone del trapanese ed in parte dell'agrigentino, i cui consorzi hanno già presentato alla Cassa progetti per 110 miliardi per il convogliamento di immense masse d'acqua nei loro territori».
Allarmante il giudizio del piccolo assegnatario della riforma agraria, un coltivatore diretto di Pioppo che, per fare fronte alla siccità estiva, ha ricavato in un imbuto del suo terreno un piccolo laghetto dal quale attinge l'acqua per irrigare, nei mesi caldi, col sistema a pioggia, la sua salma di vigneto. Un sistema, quello dei laghetti artificiali, molto sfruttato nella zona tra Roccamena e Corleone e fino ai confini di Trapani e Agrigento. Don Peppino Garda, per fronteggiare la penuria d'acqua nei mesi estivi, dovuta al prosciugamento del Belice, ha costruito per i suoi vigneti tre laghetti artificiali. Molti i coltivatori della zona che lo hanno imitato. Senza queste provvide, anche se rudimentali iniziative, centinaia di ettari di vigneti rimarrebbero in estate al secco e improduttivi.«Al sistema dei laghetti artificiali - dicono i fratelli Marino, proprietari di vaste distese di terreno all'imbocco di Ficuzza - stiamo ricorrendo anche noi. Ne abbiamo in costruzione uno, dal momento che nessuno si preoccupa seriamente dell'agricoltura e lo Stato lascia disperdere le immense riserve d'acqua delle nostre sorgive montane che, nei mesi invernali, sono veramente imponenti».
Dunque, il retroterra di Palermo, noto per le sue incommensurabili risorse idriche, si appresta a specchiarsi nel gran lago della diga Garcia e ad indispettirsi per il grosso furto delle sue inesauribili fonti idriche (Rocca Busambra, Piano Giumenta, etc.) che verranno convogliate nel serbatoio di Garcia per finire, poi, nel trapanese e nell'agrigentino. E mentre i paesi sottostanti a Piano Giumenta come Corleone, Campofiorito e Bisacquino soffrono l'arsura (terreni e cittadini), la loro acqua emigra quasi beffandoli verso altre zone che, poi, per essere state per prima colonizzate dagli arabi, sono tra le più fiorenti della Sicilia occidentale. Fa quasi rabbia sapere che gli abitanti di Campofiorito, per fare un esempio, nei mesi invernali, hanno il terrore delle piene dell'acqua che, dalle sue inesauribili sorgive montane e dal Piano Giumenta, sfociano a valle impetuose travolgendo ogni ostacolo, spazzando strade e muri, allagando persino il paese. Un paese immerso nell'acqua e che muore di sete.
E allora a che è servita la costruzione della diga? Eccoci quindi all'ipotesi del gran deserto della mafia che, anche dalle zolle una volta aride, ha saputo cavarci “oro”. Tre organizzazioni mafiose, (Palermo, Trapani e Agrigento) alla conquista del gran deserto di Garcia e che per la sfrenata corsa ai nuovi e redditizi appalti hanno rotto tradizionali equilibri. In questo “deserto” si è registrato il sequestro Corleo, si sono abbattute le prime scariche di calibro 38 e di lupara su ben otto persone e, infine, a Ficuzza, è stato trucidato spietatamente il colonnello dei carabinieri Russo, il quale forse riteneva di poter affrontare con la caparbia che lo aveva distinto al nucleo investigativo di Palermo il nuovo compito di consulente della Saiseb, un'impresa impegnata nel “deserto di Garcia” e quindi anche nella corsa agli appalti per le opere di bonifica attorno alla grande diga.
Una diga che faceva gola a molti
Estremamente significativo è il contenuto del seguente articolo di Mario Francese, apparso sul "Giornale di Sicilia" del 6 settembre 1977:
L'incredibile storia di appalti e delitti per la diga Garcia.
Quali interessi mobilita un'opera da 350 miliardi.
Gli espropriati sono 236: un ettaro di vigneto pagato tredici milioni, il doppio se apparteneva a un coltivatore diretto.
I vantaggi dei trapanesi e degli agrigentini
L'uccisione del colonnello Giuseppe Russo è servita forse a mettere a nudo, in termini realistici, uno spaccato dell'oscuro mondo della mafia nei suoi livelli più qualificati e a fornirci una più chiara visione del connubio mafia - politica e dei potenti mezzi di cui questa accoppiata dispone nella sfrenata e sconcertante corsa all'arricchimento senza limiti. Forse Giuseppe Russo ha scritto da morto il rapporto più significativo della sua lunga e brillante carriera di ufficiale del nucleo investigativo dell'Arma: un rapporto che apre le sue prime pagine col dopo Ciaculli. Quando in quegli anni di guerra cruenta tra le cosche mafiose del palermitano, l'allora capitano Russo, succeduto al maggiore Favalli e al capitano Ricci al comando del nucleo investigativo, cominciò a muovere i primi passi contro la malavita organizzata della Sicilia occidentale, avvenne un fatto che incuriosì investigatori e mafiosi. Un certo costruttore, don Peppino Garda, presunto “boss” di Monreale, vendette frettolosamente molti degli edifici, costruiti in via Sciuti in società con Peppino Quartuccio (il marito della rapita di Monreale, in galera perché accusato di sei omicidi seguiti dalla liberazione senza riscatto della moglie), e si ritirò in eremitaggio. Perché la fuga da Palermo di Giuseppe Garda? Paura di venire coinvolto nella tremenda faida tra le cosche mafiose palermitane capeggiate dai La Barbera, Torretta, Greco, Cavataio, Luciano Liggio? Per un capitano - Giuseppe Russo - che giunge al comando del nucleo investigativo, un presunto boss dell'edilizia che fugge in un solitario eremitaggio a Roccamena.
«Dalla vendita degli edifici di via Sciuti - ci dice Giuseppe Garda - ricavai cento milioni. Investii il denaro a Roccamena e lo impiegai tutto per l'acquisto di un incolto latifondo» (dove ora in gran parte dovrà essere costruita la diga Garcia). Il motivo don Peppino non ce lo ha detto. Ma oggi, è facile intuirlo. Dal giorno della “fuga” da Palermo del “patriarca" di Monreale, prendeva il via l'esecuzione di un colossale progetto: quello per la costruzione della diga Garcia. L'ex costruttore, quindi, non fuggì dalla trincea dove le cosche palermitane si contendevano a colpi di calibro 38 e di “Giuliette-bomba” privilegi nelle costruzioni: andava a realizzare un progetto che, nel giro di dieci anni, gli ha fatto intascare quasi un terzo dei 17 miliardi stanziati dallo Stato per la costruzione della “faraonica” diga. E mentre il “re” di Roccamena compie gli ultimi passi per intascare la sua buona fetta di miliardi per i vigneti espropriatigli, raggiungendo il vertice della sua formidabile ascesa economica, il capitano Russo, divenuto poi colonnello, ha varcato il traguardo della vita nella vile imboscata di Ficuzza. Due carriere, due esempi.
La costruzione della diga Garcia era stata progettata da un trentennio. Ma col prefetto Mori a Palermo, negli anni trenta, la mafia dovette accantonare molti dei suoi progetti, impegnata in una dura lotta di sopravvivenza. Dopo Ciaculli e il ristabilimento degli equilibri mafiosi seguiti agli arresti di Angelo La Barbera, Pietro Torretta e Luciano Liggio, nel palermitano, e di don Vincenzo Rimi e del figlio Filippo, nel trapanese, il progetto tornò d'attualità.
"Burgisi” furbi, ma poco lungimiranti e, soprattutto preoccupati di evitare ogni rapporto con i superburocrati dell'espropriazione, furono ben lieti di cedere i loro terreni, del resto incolti ed adibiti a pascoli, per una fazzolettata di milioni. Giuseppe Garda, per assicurarsi un latifondo di oltre 300 ettari, impiegò 100 milioni. Altrettanto fecero personaggi lungimiranti come i Salvo e i Giocondo che con poche centinaia di milioni, divennero proprietari di feudi immensi. Quando nelle contrade di Gammari e di Balate di Roccamena, Garda, i Salvo, i Giocondo, etc., misero in moto la macchina della trasformazione della immensa vallata che da Roccamena si estende fino a Garcia (un triangolo di terra tra le provincie di Palermo, Agrigento e Trapani), a Monreale, Roccamena, Pioppo, San Giuseppe Jato e San Cipirello, si gridò al miracolo. Centinaia di ettari di terreni a pascolo furono trasformati in lussureggianti vigneti irrigui. Naturalmente, le provvide leggi agricole regionali hanno favorito questa imponente trasformazione e la costruzione di laghetti collinari.
«I miei vigneti - dice Giocondo di Poggioreale, indicandoceli dalla roccaforte di Gammari di don Peppino Garda - sono decine di ettari e tutti giovani. Quest'anno sono al sesto raccolto. Fra cinque anni saranno sommersi dall'acqua della diga».
- Ma perché ha impiantato sette anni fa, un così vasto vigneto se ben sapeva che i terreni gli sarebbero stati espropriati per la costruzione della diga? Nessuna risposta. Per Giocondo parla la legge 865: 13 milioni a ettaro per i vigneti, 4 milioni e mezzo per i seminativi. Le cifre sono raddoppiate se i proprietari sono (e lo sono tutti) coltivatori diretti. Il miracolo della trasformazione, quindi, è divenuto un “miracolo” economico per i nuovi proprietari espropriati, una tremenda beffa per i vecchi “burgisi” che, per paura dell'esproprio, si erano frettolosamente disfatti dei loro terreni, e un tremendo inganno per il bracciantato agricolo del retroterra palermitano (circa duemila occupati), tradito prima dalla natura e poi dalla trasformazione. Avevano prima una valle incolta che non dava loro pane, avranno entro cinque anni un lago in cui soltanto potranno specchiare le loro ansie e la loro amarezza.
Giuseppe Garda, per ogni cento ettari di vigneto espropriatogli, guadagnerà 2 miliardi e seicento milioni: altri 13 milioni ad ettaro andranno nelle tasche dei generi, dei nipoti e di qualche amico per i rapporti di gabelle, mezzadrie e cooperazione che avevano instaurato con don Peppino e che sono indispensabili per avere la fetta delle somme stanziate per l'espropriazione. La costruzione della diga Garcia, anche se l'ingegnere Francesco Secco, rappresentante della Lodigiani, appaltatrice dei lavori per un primo progetto di 47 miliardi e rotti, si ostina a dire che «non ho ancora visto la mafia e non riesco a vedere come la mafia possa intrufolarsi nei lavori della diga», viene ad attuare un decennale piano della mafia che, nella realizzazione del più grande serbatoio del palermitano, aveva trovato nuovi equilibri: a Palermo i vantaggi delle terre espropriate, ad Agrigento una parte di acqua e le forniture per la mensa e delle persone di fiducia della Lodigiani, al trapanese la stragrande maggioranza dell'acqua della diga con la valorizzazione di immense distese di terreni prima incolti.
Se nella fase cruciale della realizzazione (piano espropriazione e inizio lavori) si sono registrati i sequestri Corleo, Campisi, Madonia e Graziella Mandalà, oltre quelli di Luciano Cassina e di Giuseppe Vassallo, vuole dire che proprio la diga Garcia ha fatto saltare equilibri che sembravano già consolidati. Di fronte alla ballata di miliardi intorno a Garcia, insomma, si è avuta una specie di rivolta di parenti poveri: una vera e propria guerra fra il vertice economico di una piramide (mafia - politica) e un certo strato, tra la mediana e la base, della piramide stessa. La diga, che aveva così fatto venire la "fame” anche a Danilo Dolci, che, per la realizzazione del grande invaso, aveva digiunato a Roccamena per 40 giorni: che aveva indotto il governo a dare alle masse contadine il contentino di pezzetti di latifondo a Roccamena (che rimarranno all'asciutto): che, all'improvviso ha evidenziato la beffa del miracolo della trasformazione che dava lavoro a duemila braccianti, fatalmente, si è trasformata in una trincea dove è iniziata una battaglia senza quartiere che, lungo la strada degli appalti, ha cominciato a seminare una catena di morti ammazzati. La Lodigiani non conosce la mafia? Lo vedremo.
Come al solito, ci guadagna la mafia
Il 9 settembre 1977 fu pubblicato sul "Giornale di Sicilia" il seguente articolo di Mario Francese:
L'incredibile storia di appalti e delitti per la diga Garcia.
Alla mafia i privilegi ai "piccoli" le briciole.
Quanto costerà all'impresa l'affitto del terreno per impiantarvi il cantiere
L'impresa milanese Lodigiani, subito dopo l'aggiudicazione dell'appalto (per oltre 47 miliardi) dei lavori per la costruzione della diga Garcia, ha trovato nella zona “ponti d'oro”. Ecco perché l'ing. Francesco Secco, direttore tecnico dell'impresa, quando si è scritto che la catena di otto morti ammazzati nel triangolo Roccamena, Corleone, Mezzojuso, portava l'etichetta della mafia ed era collegata con la diga, si premurò a dichiarare: «Io della mafia ho solo sentito parlare...». Lui i mafiosi li immagina con i “barracani” sulle spalle e con la calibro 38 in pugno. E non solo l'ing. Secco. Molti settentrionali la pensano come lui. Non appena la Lodigiani ha messo piede a Garcia le è stato subito offerto un cocuzzolo arido dal quale, comunque, si domina la vallata che, entro cinque anni, dovrebbe venire sommersa dalle acque della diga. «A disposizione ingegnere, lei qui è il padrone». E la Lodigiani sul cocuzzolo panoramico di Garcia, vi ha realizzato il suo cantiere con una spesa di cento milioni: alloggi moderni per circa 500 operai, un immenso capannone per la mensa, infrastrutture per i mezzi meccanici e persino un pozzo per l'acqua. Poi quando il cantiere, moderno, è stato realizzato, l'ing. Secco ha avuto un altro colloquio con il proprietario della collinetta. «Io - ha detto il personaggio di Poggioreale - ingegnere, non pretendo un soldo di affitto. Ma sa, in cinque anni, quando l'impresa avrà finito i suoi lavori, non mi dispiacerebbe che venisse lasciato tutto per come è stato sistemato ora». Il proprietario dell'arido cocuzzolo, così, quando la Lodigiani sloggerà dal cantiere, si troverà proprietario di opere per oltre 100 milioni che, magari, potrà adibire (e nella zona se ne avverte la necessità) a confortevole albergo-ristorante. La zona lo consente.
A chi servono i “barracani” e le “calibro 38”? Alla mafia qualificata certamente no. Non sono serviti a Rosario Napoli, che era stato presentato al direttore della Lodigiani da un personaggio influente, per noleggiare all'impresa della diga una pala meccanica e per fornire materiale dalla sua cava Mannarazza. «Ma che subappalti - dice l'ing. Secco - noi siamo autosufficienti. Se qui occorre una ruspa, da Milano ne mandano tre. E così anche per i camion, così per le pale meccaniche e per le betoniere».
Un discorso, press'a a poco, come quello del geometra Cattani, direttore della Saiseb, un'altra delle decine di imprese del continente scese nelle zone terremotate del Belice per «dare una mano» alla ricostruzione dei paesi terremotati. Cattani ha smentito che il colonnello Russo, ucciso in un'imboscata a Ficuzza, operasse da qualche mese come consulente della Saiseb. L'assessore Bellomare ha smentito Cattani, come la ruspa di Rosario Napoli, abbandonata dal proprietario del cantiere di Garcia al momento della sua precipitosa fuga in Svizzera, dopo l'attentato subito a Mannarazza, smentisce l'ing. Secco.
La mafia della calibro 38, semmai la conosce Rosario Napoli: una mafia della base, nella piramidale organizzazione, che si contende il pane quotidiano, gli spiccioli dei «grandi», gli appalti secondari, le forniture. Rosario Napoli aveva portato al cantiere della Lodigiani campioni delle pietre della cava acquistata di recente e di prossima inaugurazione, proprio alle spalle della vecchia cava Mannarazza, che aveva avuto fino ad allora in affitto. Quando Napoli iniziò, col suo biglietto di presentazione, i suoi rapporti con la Lodigiani, i proprietari della cava che lui aveva in affitto, cercarono di mettergli i piedi sul collo. Fino allo scorso giugno, Napoli pagava come canone 150 lire a metro cubo di materiale estratto e venduto. «O ci dai 350 lire a metro cubo di materiale, o te ne puoi andare», gli dissero. Napoli si sentiva protetto. Chi lo aveva presentato al direttore della Lodigiani avrebbe potuto anche proteggerlo dalle «vessazioni» dei proprietari della cava. Perciò resistette e reagì comprandosi una cava vicina. Poi il 19 luglio scorso, quando quattro killer cercarono di ammazzarlo (o volevano solo impaurirlo?), Napoli si rese conto che i suoi protettori non potevano garantirgli anche la vita e fece frettolosamente fagotto. Si è rifugiato in Svizzera. Undici giorni dopo, sul ponte San Leonardo di Roccamena è morto ammazzato Giuseppe Artale, uno dei comproprietari della cava Mannarazza e guardiano del cantiere della Paltrinieri, un'altra delle undici imprese impegnate, per conto del consorzio dell'alto e medio Belice, in lavori nella vallata di Roccamena.
Ponti d'oro per la Lodigiani: mentre i disperati della base mafiosa ribattono a colpi di lupara e cal. 38. Questi i due volti di una stessa organizzazione, a livelli diversi. Ponti d'oro della mafia alla diga e alla Lodigiani, ponti d'oro alla diga anche del consorzio tra i proprietari dei terreni espropriati, che non si sono affatto battuti per impedire la costruzione di un invaso che avrebbe tolto lavoro a pane a circa duemila braccianti agricoli e portato in zone lontane l'acqua del palermitano.
«A battermi per il fermo della diga - dice l'on. Nicola Ravidà - sono rimasto solo e naturalmente inascoltato. Ho presentato all'Assemblea regionale, il 20 ottobre 1976, un'interrogazione con cui avevo sollecitato la sospensione della diga. Ottenni una risposta, dall'assessore all'Agricoltura, evasiva e insoddisfacente. Replicai nella seduta del 19 gennaio scorso, ma inutilmente. Definii la diga Garcia uno di quei monumenti allo spreco e di quelle voragini di pubblico denaro che segnano, come pietre mortuarie, il cammino del sud verso la depressione e l'emarginazione. Sono i risultati e i simboli di una falsa politica meridionalista, nutrita di improvvisazione, demagogia, superficialità e con uso disinvolto degli strumenti pubblici. Non è raro, del resto, che parti politiche e strumenti d'opinione, che si richiamano ad interessi popolari, finiscano poi col patrocinare soluzioni che comportano sprechi colossali e, quindi, distruzione di ricchezza pubblica e, quindi, altra miseria e altra depressione. La Garcia continua una non onorata tradizione di errori e di abbagli, che sono anche della sinistra siciliana. Perché questa spesa di miliardi? Forse per irrigare il cuore silenzioso e depresso della Sicilia occidentale e, quindi, portarvi speranza, benessere, alternative all'emarginazione e alla storica condanna del feudo? Nossignori! Serve a portare acqua dove già c'è, dove l'agricoltura è mirabilmente ornata di trasformazioni e di iniziative, trascurando e mandando alla malora le piane depresse dell'interno».
Ma la diga non è stata bloccata. Certi interessi, oscuri e curiosi, non possono essere travolti nel nome e nell'interesse di quelle categorie (piccoli coltivatori, mezzadri, affittuari, emigrati, assegnatari della riforma) che, per una diga con diverse finalità, avevano combattuto, affiancate da forze politiche e sindacali di un ampio schieramento.
La sentenza in questione è quella della Corte di Assise di Palermo, presidente Leonardo Guarnotta, contro Salvatore Riina +9.
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