Nel processo che vede l’ex sindaco imputato di una serie di reati che vanno dal favoreggiamento dell’immigrazione clandestina a eventuali illeciti nella costruzione di cooperative solidali e nell’uso dei fondi pubblici, il pm gli contesta un’intervista nella quale avrebbe sfruttato il “modello Riace” per mero interesse politico e di immagine
Indagate Mimmo Lucano. Chiedetegli perché si è candidato alle prossime elezioni regionali in Calabria, quali interessi si nascondono dietro la sua scelta. Tribunale di Locri, Calabria, udienza del 26 aprile del processo a carico dell’ex sindaco di Riace. Il pubblico ministero, Michele Permunian, si avvicina al Presidente del collegio e chiede l’acquisizione agli atti di un documento. Un foglietto. Poche righe. È il “lancio” di una agenzia, l’Agi del 18 aprile, con una intervista nella quale Lucano spiega i motivi che lo hanno spinto a candidarsi alle regionali calabresi nello schieramento alternativo guidato dal sindaco di Napoli Luigi de Magistris.
«Riace – dice Lucano all’Agi – è per me una ferita ancora aperta, ma ora c’è questa nuova sfida, il mio obiettivo è realizzare a livello regionale le idee che ho concretizzato a Riace». Nell’intervista l’ex sindaco mantiene la linea che ha sempre seguito riguardo al processo che lo vede imputato di una serie di reati che vanno dal favoreggiamento dell’immigrazione clandestina a eventuali illeciti nella costruzione di cooperative solidali e nell’uso dei fondi pubblici, nessuna polemica. Dice di aver fatto presente la sua condizione di imputato a chi gli proponeva la candidatura, afferma di essere tranquillo. «Non ho rubato, non ho ammazzato nessuno».
Dichiarazioni politiche, come si vede, che poco o nulla hanno a che fare col processo. Ma che per il pm diventano la “pistola fumante” di uno dei fragili pilastri dell’accusa: Lucano ha usato il suo essere diventato il sindaco di un modello, per mero interesse politico e di immagine. Dall’inizio dell’inchiesta scaturita nel processo, l’ex sindaco ha ricevuto varie proposte di candidatura, sia dal Pd che dalle formazioni di sinistra. Collegi sicuri, come si dice, sia per le elezioni politiche del 2018 che per le europee del 2019. Gli stessi avvocati difensori, Giuliano Pisapia e Andrea Daqua, recentemente hanno chiesto di sentire come testimoni alcuni leader nazionali per confermare l’esistenza di contatti e proposte. La richiesta è stata respinta dal collegio, che, fin dall’inizio del dibattimento, ha scelto di tener fuori la politica dal processo.
Ma per il pm quei no di Lucano vanno interpretati diversamente. «Fin dall’attività intercettiva – ha affermato – emerge che a Lucano viene proposto di candidarsi, ma non come capolista, e solo questo la fa desistere». Per il dottor Permunian, Lucano dice no al Parlamento italiano e a quello europeo, perché nessun partito gli offre un posto da primo fra i candidati, ora, invece, «si candida perché gli hanno offerto il posto di capolista, una cosa che conferma la bontà delle intercettazioni».
E qui la “pistola fumante” si rivela subito per quello che è: una innocua pistola ad acqua. Perché il pubblico ministero fa finta di non conoscere i vari meccanismi elettorali, e soprattutto la differenza che passa tra una candidatura nazionale o europea in un collegio “blindato”, con le elezioni regionali calabresi che prevedono sbarramenti altissimi (dall’8 al 4 per cento) per l’accesso in consiglio.
La richiesta dell’accusa è giudicata “irrilevante e tendenziosa”, dai difensori di Lucano. Per l’avvocato Daqua, la procura «è tornata più volte sul tema politico, ora basta». Il riferimento del legale è alle varie interviste, rilasciate a conclusione dell’inchiesta, dallo stesso procuratore di Locri Luigi Dalessio. «L’interesse può essere anche politico, d’immagine», diceva il magistrato ai giornalisti. Ora, a processo che si avvia a conclusione (la requisitoria è prevista per il 17 maggio), torna il tema dell’interesse “politico”.
I soldi, che secondo l’accusa Lucano avrebbe lucrato sfruttando l’accoglienza dei migranti, non sono stati trovati, si punta su qualcosa di meno palpabile, volatile. Ed è questo un altro lato oscuro di una inchiesta con molte anomalie. La più clamorosa è stata denunciata da Domani nelle settimane scorse, e riguarda le intercettazioni a strascico di una trentina di giornalisti e tre magistrati. Chiacchierate ininfluenti ai fini processuali, ma regolarmente trascritte e rese pubbliche, anche quando nelle telefonate si parlava della vita e dei problemi dei figli di Lucano.
«È un reato occuparsi di politica? – si chiede polemicamente l’ex sindaco di Riace - Faccio parte di una sinistra antagonista, anticapitalista e antigiustizialista. Considero preoccupante il tentativo della procura di inserire nel processo una mia intervista in cui annuncio la mia candidatura. In questo modo non si riconoscono e non si rispettano i diritti costituzionalmente garantiti. Mi riferisco al mio diritto di fare politica, di seguire i miei ideali che sono quelli di una giustizia sociale e di sperare in una Calabria libera dalle mafie e da ogni forma di oppressione. I nostri paesi sono paesi fantasma che stanno morendo. Quali sono le soluzioni?».
«Non ho altri interessi – conclude Lucano – e mi chiedo se avere questi ideali sia un reato. Ringrazio il presidente Accurso che ha evitato tutto questo ma non posso non chiedermi se l’atteggiamento della Procura nei miei confronti sarebbe stato lo stesso se fossi stato candidato con la Lega o con il centrodestra». A mettere fine alle polemiche, il presidente del collegio Fulvio Accurso, che ha respinto la richiesta del pm: «Sono fatti estranei al processo che non ci riguardano».
© Riproduzione riservata