Un film. Un pallone. Due ragazzini. Che ribaltano il copione: non più dall’Africa all’Italia, ma dall’Italia all’Africa. È la rotta di Rocco e Thabo, protagonisti con Il sole dentro di una delle storie più tenere degli ultimi anni di cinema. Solo che nei cinema il film di Paolo Bianchini s’è visto poco o nulla. «La distribuzione l’ha tenuto tre giorni – ci racconta il regista – il primo quasi nessuno, il secondo incoraggiante, il terzo molto meglio. Eravamo contenti. Poi ci hanno detto “scusate, ma abbiamo bisogno di tutte le sale perché dobbiamo lanciare I soliti idioti 2”. E quando può ritornare? “Basta, è bruciato”. E a quel punto niente più, solo un passaggio su Sky».

Il film, però, non s’è dato per vinto, ed è ripartito. Trovando un alleato prezioso: le scuole. Elementari, medie, superiori. Centinaia di proiezioni in 12 anni, «qualcosa di incredibile», racconta Bianchini, che ha scritto il soggetto con la moglie Paola Rota. Un caso unico di visioni di massa lontano dai circuiti tradizionali. E la storia continua: l’ultima volta a Montefalco, in Umbria, i ragazzi incollati a seguire i dialoghi e le avventure dei due ragazzi. Il sogno di un provino calcistico di Thabo svanito, la partita che cambia palcoscenico, il deserto, le dune, gli amici, i pericoli, l’arrivo a casa.

Casa che potrebbe essere da tante parti. Le riprese sono state girate a Bari e in Tunisia, però la storia vera nasce in Guinea, Guinea Conakry per essere precisi, Africa occidentale in riva all’Oceano Atlantico, uno dei Paesi più poveri del mondo.

La rete metallica

Da qui, da Conakry, partirono Yaguine Koita e Fodè Tounkara, ragazzini pure loro. Quando Bianchini atterrò in Guinea vide tanti ragazzi al di là di una rete metallica che inseguivano i fasci di luce dell'aeroporto per studiare sui loro appunti. «Libri non ce n’erano, solo pezzi di carta». Yaguine e Fodè, invece, si infilarono nel vano carrello di un volo diretto a Bruxelles. Avevano una lettera in mano e volevano consegnarla personalmente. Cominciava così: «Loro eccellenze i signori membri dell’Unione Europea».

Un’ingenua, innocente richiesta di aiuto che denunciava la povertà, la difficoltà di andare a scuola, il diritto violato all’essere bambini e a fare le cose che fanno i bambini. Per esempio, giocare. «Non abbiamo scuole di sport per praticare il calcio, il basket, il tennis». La richiesta era quella di «fare un’organizzazione utile per l’Africa perché progredisca».

La lettera non fu mai consegnata: all’arrivo dell’aereo, Yaguine e Fodè, 15 e 14 anni, furono trovati senza vita travolti dal freddo, abbracciati con la lettera ancora fra le mani. Era il 1999. Se ne parlò poco o nulla, per non dire per niente. Fino al film su questa storia, una storia che ne conteneva molte altre: l’immigrazione, la povertà, la speranza, il riscatto, i sogni che si realizzano, ma anche quelli che svaniscono e si perdono.

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La lettera

Il film cominciò così la sua lunga e complicata strada. Il viaggio a Conakry fu il momento più importante: «Incontrammo nelle due baracche in cui vivevano, il papà di Fodè e la mamma di Yaguine, che poi nel film interpretano loro stessi. In una tasca dello zaino di uno dei ragazzi, c’era la brutta copia della lettera che avevano ricopiato in vista del loro viaggio a Bruxelles».

Fu il big bang del racconto, il via al progetto del film con la produzione di Alveare Cinema e il cast degli attori, da Angela Finocchiaro a Giobbe Covatta a Diego Bianchi. C’era un problema di soldi, tanto per cambiare. Bianchini e sua moglie Paola decisero di anticiparli contando sugli incassi da botteghino che non arrivarono mai. Non prevedevano queste strade così sbarrate. E così quel film ha lasciato una traccia non solo nei loro pensieri, ma pure in qualcos’altro. «Fummo costretti a impegnarci la casa con le banche».

Nel frattempo il film trovò questo impensabile piano B ed è nelle scuole che è diventato grande. «Vicino Firenze, dopo averlo visto, una studentessa ci chiese: e io che posso fare? Allora le dicemmo: scrivi, scrivi anche tu a Bruxelles come Yaguine e Fodè». L’invito diventò virale: una clamorosa raccolta di missive con cui bambini e ragazzi che vedevano il film, raccoglievano il testimone dei due ragazzi partiti e mai arrivati a Bruxelles. Migliaia di lettere che furono portate al Parlamento Europeo. «A Palermo, invece, al liceo Ninni Cassarà, trovammo una scuola che cascava a pezzi. La visione del film diventò un’occasione collettiva per mettere le cose a posto, imbiancare le pareti, cambiare i vetri, ripristinare i bagni: arrivavano 150 ragazzi al giorno, c’era la mensa dei Vigili del Fuoco, cucinavano persino gli chef stellati di Villa Igea, Don Ciotti festeggiò il suo compleanno con noi».

Il regista

Paolo Bianchini oggi ha 91 anni e sembra praticamente un ragazzino. D’altronde suo padre deve avergli insegnato pure la longevità: è morto a 102 dopo aver fatto il medico giramondo. Il ricordo di suo zio, invece, l’ha fatto crescere in fretta. Un giorno di guerra, il 31 gennaio 1944, il futuro regista stava suonando il pianoforte a casa, a Roma. Era accesa la radio che a un certo punto parlò di un gruppo di “sovversivi” giustiziato.

L’annunciatore elencò i nomi di chi era finito davanti al plotone di esecuzione a Forte Bravetta. Bianchini ascoltò pure quello di suo zio, Mariano Buratti, professore di filosofia al liceo di Viterbo che oggi porta il suo nome, capo di una banda partigiana. Quella voce metallica se l’è portata probabilmente dietro tutta la vita. E quelle scene sono diventate anche loro film, La grande quercia, un blitz autobiografico nel passato della sua famiglia e della sua vita.

Una vita affollata di incontri ed emozioni. Bianchini ha lavorato tanto sul set. È stato aiuto regista con Sergio Leone, Luigi Zampa, Mario Monicelli, Vittorio De Sica. Si è poi specializzato, suo malgrado a quanto un po’ racconta, in western all’italiana, una formula che ha provocato un interesse anche oltreoceano. Il suo Quel caldo maledetto giorno di fuoco è stato apprezzato da Quentin Tarantino che l’avrebbe voluto in apertura della Mostra del Cinema di Venezia nell’anno in cui presiedeva la giuria.

«Poi mi invitò alla prima di Django, a Roma. Riconosco la sua grande maestria, per carità. Ma non mi è mai piaciuto l’utilizzo della violenza nei film, non ho mai usato il sangue, che invece è fondamentale nei suoi lavori. Insomma, non ci andai».

Ora Bianchini non ha smesso di cercare storie e di fare cinema – su Raiplay si può vedere II cannone della pace – ma Il sole dentro è come il suo figlio prediletto. «Il film non vuole star fermo, ce lo chiedono ovunque. È un modo diverso di vedere l’immigrazione, l’idea che in questi scenari che siamo abituati a vedere e a giudicare con freddezza e distanza, ci siano delle persone, anzi dei bambini».

Come Jaguine e Fodè: loro non ci sono più, ma il loro messaggio continua a girare anche se a volte è più facile voltarsi dall’altra parte.

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