La diffidenza nei confronti della pianta ha permesso a olandesi e inglesi di conquistare il primato nei commerci con la Cina: è davvero difficile comprendere il motivo di questa indifferenza, tenendo anche conto del fatto che i portoghesi ebbero per alcuni decenni il monopolio dei traffici marittimi nell’oceano Indiano
Gli europei entrarono in contatto con il tè molto lentamente e per circa tre secoli prevalse il disinteresse se non proprio la diffidenza. Come spesso è accaduto, sono stati i veneziani a parlarne per primi. Il loro ruolo strategico di porta verso l’Oriente li rendeva culturalmente predisposti a cercare di conoscere i prodotti e i consumi delle popolazioni asiatiche, che potevano diventare un commercio redditizio anche in Europa. Il primo a farne menzione fu nientepopodimeno che Marco Polo, e chi se no, in un breve accenno alla tassa imperiale che gravava su questa pianta e sulla bevanda che se ne ricavava.
Nei secoli successivi, altri viaggiatori e mercanti veneziani fecero dei resoconti più dettagliati. Il più importante fu sicuramente Giambattista Ramusio che nella sua opera Delle navigationi et viaggi, pubblicata postuma nel 1559, descrive quello che lui chiama “Chai Catai” e che noi potremmo tradurre proprio come “Tè della Cina”. L’autore veneziano, celebrato per i suoi racconti di viaggi in tempi antichi e moderni, apprese dell’esistenza del tè da un mercante persiano, ma ancora una volta si trattava di una testimonianza indiretta e che non aprì nuove opportunità di commercio. Tanto è vero che per altri trent’anni non vi sono nuovi resoconti o nuove descrizioni del tè in Europa.
I resoconti portoghesi
Bisogna arrivare al 1588 quando il gesuita Giovanni Pietro Maffei pubblicò a Firenze una sorta di storia delle imprese coloniali portoghesi nell’Oceano Indiano, all’interno della quale c’è la lettera di un missionario in India che per la prima volta indica la possibilità di sfruttare economicamente questa strana pianta.
La prima fase delle esplorazioni geografiche portoghesi fu dominata dall’idea di sostituirsi ai veneziani nel commercio di spezie, esattamente lo stesso obiettivo che si era dato Cristoforo Colombo nella sua impresa al servizio della corona spagnola. Quando Vasco de Gama riuscì a doppiare il Capo di Buona Speranza, nel 1497, la possibilità di aprire nuove rotte commerciali divenne una realtà estremamente concreta e quando l’impero cinese concesse al piccolo regno iberico la possibilità di stabilire a Macao una propria stazione commerciale, nel 1557, l’arrivo in Europa di nuovi prodotti non conobbe più limiti.
I commercianti portoghesi e i missionari gesuiti a loro seguito scrissero spesso con favore del tè, ma stranamente non sono documentati carichi di tè da parte delle navi lusitane. Ancora nel 1633 il sacerdote portoghese Alvaro Semedo riportò una descrizione molto dettagliata della bevanda e del favore che avrebbe potuto incontrare tra la nobiltà europea. Semedo dimostrava di essere estremamente informato sul tè e sulle varie modalità di consumo; ricordava, ad esempio, l’usanza cinese di offrire il tè agli ospiti e spiegava che quando il tè veniva offerto per la terza volta, era tempo per l’ospite di congedarsi.
Indifferenza totale
Tutte queste informazioni e anche questi giudizi tutto sommato positivi sulla bevanda non innescarono alcun tentativo commerciale. Ed è davvero difficile comprendere il motivo di questa indifferenza, tenendo anche conto del fatto che i portoghesi ebbero per alcuni decenni il monopolio dei traffici marittimi nell’oceano Indiano. La spiegazione più probabile è che ci fosse nei confronti della bevanda una forte diffidenza a causa di una sua presunta tossicità. Non c’erano motivi per pensarlo, il fatto di non riuscire a catalogare né la pianta né la bevanda in una categoria già nota finiva per aumentare i dubbi e i timori.
Il paradosso è che il consolidato primato portoghese nei traffici asiatici costrinse gli inglesi e soprattutto gli olandesi a cercare nuove opportunità commerciali. Oltre a stimolare con l’esempio l’iniziativa commerciale dei loro concorrenti, i portoghesi informarono del tè proprio gli olandesi attraverso i racconti di Jan Hugo van Linschoten che viaggiò a lungo sulla flotta portoghese e che pubblicò le sue memorie prima in fiammingo nel 1595 e poi in inglese nel 1598. Tra le tante descrizioni di van Linschoten c’è anche quella del tipico pasto giapponese: «Alla fine prendono una bevanda preparata con acqua tanto calda quanto possono sopportarlo, sia in inverno che in estate (…). Dentro quest’acqua calda è dissolta la polvere di un’erba, detta Chaa, che è molto apprezzata e considerata tra di loro». Il risultato di questa informazione di Linschoten fu che la diffusione del tè in Europa fu operata dagli olandesi, proprio i grandi rivali commerciali dei portoghesi, che pure avevano tutti i vantaggi tecnici ed economici per guidare anche questo traffico.
Ma le paure e le diffidenze nei confronti della pianta consolidate dalle parti di Lisbona impedirono di svilupparne il commercio. Gli olandesi, al contrario, che non avevano nulla da perdere, si buttarono in questa attività, sicuri, in questo modo, di non entrare in conflitto con il Portogallo. Addirittura, nel 1609 la prima nave che portò in Europa una balla di tè era olandese e salpò proprio dalla colonia portoghese di Macao alla volta di Amsterdam. E dopo gli olandesi arrivarono gli inglesi; quando il commercio delle spezie cominciò a declinare, fu proprio il tè a rappresentare il settore che garantiva i maggiori profitti. La paura nei confronti di un cibo nuovo ha determinato un cambiamento negli equilibri economici tra i primi colonizzatori europei e gli ultimi arrivati.
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