Secondo i giudici, per uno dei membri della famiglia ex proprietaria dell’azienda, accusato per il crac della holding che controllava l’Ilva, «il fatto non sussiste». Oggi, intanto, la firma dell’accordo con cui lo Stato rientra nel capitale del gruppo dell’acciaio
Nel giorno in cui lo stato rientra nell’Ilva, la Corte d’appello di Milano ha assolto Fabio Riva, uno dei membri della famiglia ex proprietaria del gruppo siderurgico, dall’accusa di bancarotta per il fallimento della Riva Fire, l'azienda che deteneva il controllo del colosso dell’acciaio. In primo grado il gup, al termine del processo con rito abbreviato, aveva dato l’assoluzione a Riva nonostante una richiesta di condanna a più di cinque anni formalizzata dalla procura. Nel processo di secondo grado, però, la procura generale aveva chiesto la conferma dell’assoluzione «perché il fatto non sussiste». Oggi, dunque, il verdetto della Corte d’appello di Milano – emesso dai giudici Piffer-Gamacchio-Rinaldi – ha confermato quella richiesta.
Sul caso Ilva pendono le accuse di due diverse procure: quelle relative a reati ambientali e di sicurezza sul lavoro, di competenza dei magistrati di Taranto, e quelle relative a reati economico-finanziari, un filone seguito dai giudici di Milano. Per quanto riguarda il processo in corso a Taranto, definito “Ambiente svenduto”, è attesa per i prossimi mesi la sentenza della Corte d’Assise.
Lo stato entra nell’ex Ilva attraverso Invitalia
Nel frattempo è attesa per il pomeriggio di oggi la firma dell’accordo tra ArcelorMittal e lo stato italiano – tramite Invitalia – che porterà l’ingresso della società gestita dal ministero dell’Economia e delle finanze nel capitale dell'azienda dell’acciaio. L’accordo doveva essere formalizzato a fine novembre, ma la firma è slittata poi a oggi. In questo modo, lo stato italiano rientra nella gestione dell’ex Ilva dopo averla venduta, nel 1995, proprio al gruppo privato gestito dalla famiglia Riva. Prima del nuovo ingresso dello stato, nel 2013 con la gestione commissariale e due anni dopo con l’amministrazione straordinaria, fino all'aggiudicazione ad ArcelorMittal nel 2017.
Invitalia procederà, probabilmente a febbraio, a un aumento di capitale da 400 milioni di euro a vantaggio di AmInvestco Italy, società veicolo di ArcelorMittal, cui seguirà un nuovo innesto di denaro da 800 milioni di euro entro il 2022. Sarà così che lo stato tornerà azionista di maggioranza dell’ex Ilva, con circa il 60 per cento delle quote. Fino ad allora, le quote saranno ripartite al 50 e 50. L’obiettivo del piano industriale fino al 2025 è di portare la produzione dello stabilimento di Taranto – il più grande d’Europa – a otto milioni di tonnellate di acciaio all'anno. Una parte proverrà dagli altoforni 4 e 5 (quest’ultimo ricostruito) e una parte da un inedito forno elettrico.
Per quanto riguarda eventuali tagli ai dipendenti, l’impegno dello stato è di mantenere nel 2025 tutti i 10.700 occupati di gruppo, di cui 8.200 a Taranto. In mezzo, però, ci sarà una lunga transizione con la cassa integrazione: saranno 3mila gli addetti in cassa integrazione il prossimo anno. Un numero che dovrebbe poi ridursi progressivamente.
Il comune di Taranto si oppone
Il sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, non ha mai nascosto la sua contrarietà all’accordo tra Invitalia e ArcelorMittal. Il primo cittadino, infatti, ritiene che l’intesa non offra adeguate garanzie ambientali. In più, vorrebbe una decarbonizzazione totale della fabbrica o, in alternativa, la chiusura dell'area a caldo. Per protesta, Melucci e altri sindaci del Tarantino – oltre al presidente della Provincia, Giovanni Gugliotti – hanno consegnato le loro fasce tricolore al prefetto Demetrio Martino.
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