Mentre il ministro Giuseppe Valditara prova a dettare la linea attraverso «una ginnastica dell'obbedienza» (Giulia Addazi), a suon di annunci su «latino, Bibbia e storia patria» (Cristiano Corsini), noi lavoriamo a scuola tutti i giorni. La scuola è politica, recita il titolo del convivio che si terrà a Napoli a fine marzo, tappa di un percorso che in seno a Fondazione Feltrinelli, ha visto 43 autrici e autori pubblicare a maggio 2021 «La scuola sconfinata. Proposta per una rivoluzione educativa».

Negli stessi mesi a Cinecittà (Roma) stavamo elaborando e sperimentando un modello di scuola che ho ritrovato proprio nella pagine di «La scuola sconfinata», non un modello identico, ma che percorreva molti dei sentieri tracciati in quelle riflessioni, nato nelle riunioni di Ap, Antimafia pop academy, e diventato azione quotidiana grazie a una scuola (IC R. L. Montalcini) che ha aperto le porte a una cosa nuova, con l'avventatezza propria dei preadolescenti e con la sensibilità di adulti responsabili. Niente di nuovo, abbiamo portato a sintesi decenni di pedagogia e di pratiche che hanno da sempre ispirato il nostro agire.

In quel primo anno scolastico post lockdown abbiamo pensato e sperimentato «Praticare la città», un modello di educazione all'aperto per la scuola pubblica, che promuove l'interprofessionalità e integra la didattica convenzionale con attività di educazione all'aperto orientate a lavorare sul benessere di ragazze e ragazzi attraverso l'apprendimento esperienziale, l'educazione socio affettiva, la narrazione, l'educazione civica, le tracce di memoria nel territorio, l'urbanistica, la storia, il trekking urbano.

Il periodo pandemico ha favorito lo slancio trasformativo degli adulti (educatori e insegnanti) di fronte a molte “prime volte”, per quella necessità di esplorare un periodo sconosciuto, di paure e di opportunità, piuttosto che chiudersi in un guscio difensivo.

Cosa era stato quello slancio lo porta a sintesi Leonardo, con più lucidità di noi, che alla fine della sua prima media ci offre queste parole quando proviamo a raccogliere in molte forme diverse i feedback dei 200 alunni coinvolti: «Le attività all’aperto sono proprio una scuola aperta, aperta anche a chi non vuole imparare, e a qualsiasi bambino con delle difficoltà, perché riesce a spiegare argomenti che non si spiegano nella scuola normale, a meno che non ci sia qualche insegnante volenteroso. Questi argomenti vengono spiegati attraverso i pensieri e la mentalità degli alunni, e anche attraverso i loro problemi, che sono la chiave per conoscere gli alunni, ma nella scuola normale vengono considerati ostacoli. Più pressione gli alunni subiscono, più si chiudono dentro di loro, e la scuola aperta invece li apre, anche i ragazzi più timidi. Questo è il mio unico pensiero, ed è il vero potere della didattica aperta, cioè quello di “aprire” a tutti i tipi di didattiche, e soprattutto alla vita in mezzo agli altri».

La scuola è politica, perché non può prescindere da «la postura didattica che decidiamo di assumere» (Addazi), o da «prima della fine della “scuola media” si impongono scelte che consentono di canalizzare la popolazione studentesca in percorsi che di fatto sono apprezzati in quanto elitari e percorsi considerati di secondo piano» (Corsini).

«Finalmente una cosa buona nella mia vita»

Al quinto anno di Praticare la città vi parlo di Manuel 13 anni, diagnosi di disturbo «oppositivo provocatorio», enorme difficoltà a stare in classe, energia dirompente, incontenibile.

Manuel è avvezzo al turpiloquio, provocatore con i compagni, molto in difficoltà con la didattica, eppure in questi tre anni nelle attività esperienziali ha mostrato capacità di leadership, motivazione, intuizione, capacità di sostenere gli altri, attenzione orientata all'obiettivo. Ha una vita difficilissima, che lui per primo non riesce a sostenere, e a cui ostinatamente “si oppone”, a scuola come a casa.

Durante un colloquio inizia a parlarmi della scuola che ha scelto, un centro di formazione professionale per imparare a fare il meccanico. Ne parla con competenza e lucidità, ha le informazioni utili a sostenere la sua scelta. Mi racconta le sue aspettative, si proietta in quello che dovrà fare, conosce molti aspetti dell'organizzazione e del funzionamento della sua nuova scuola, come se l'avesse a lungo frequentata.

«Ora a scuola faccio il cojone», mi dice mentre proviamo a immaginarci come saranno le sue relazioni con i nuovi compagni.

«È perché mi annoio, non ce la faccio a stare fermo, ad ascoltare, qua non si fa mai niente, devi solo stare a sentire». Mi descrive quello che farà nei laboratori, quante volte dovrà montare e smontare i pezzi dei motori, quanto è importante trovare a ogni piccolo pezzetto il suo posto affinché tutto funzioni, perché «ogni vite c'ha il posto suo, lo devi sapere bene, sennò fai un casino», e poi verso la fine mi dice «perché non vedo l'ora, ci saranno tanti laboratori, finalmente una cosa buona nella mia vita». I Manuel che incontro in ogni classe non sono adatti alla nostra scuola «per bene».

La scuola è politica perché non sono bastati oltre 70 anni di grandi maestri, in Italia e nel mondo, per creare un modello in cui anche Manuel possa crescere imparando nel modo che riesce a praticare, che per molti non è il modo dei libri, dei banchi, della lezione frontale, senza sentirsi inadeguato.

C'è un modo dell'imparare facendo, o dell'imparare camminando, giocando, che non è per forza meno nobile dell'imparare leggendo, ascoltando, e stando fermi nei banchi, ma quando gli insegnanti offrono ai nostri Manuel spazi e tempi di decompressione fuori dall'aula, in piccolo gruppo, nei corridoi, i nostri Manuel sentono tutto lo stigma della diversità, perché loro non sono adatti alla scuola di tutte e tutti, perché nelle scuole di serie A ci andranno solo quelli che sanno imparare secondo le regole dell'obbedienza.

La scuola pubblica rifiuta la possibilità di prendere forma intorno ai suoi ragazzi, e resta lì, ferma, rigida, aspettando che i ragazzi si adattino lei, perché è così che si impara a stare al mondo e nessuna innovazione contempla la possibilità che la scuola democratica tenga conto di tutte e tutti, solo di quelli che sanno adattarsi. Non c'è spazio per le forme diverse, entrano solo quelle precise, ognuna nel suo buco.

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