«Pensi, presidente, quanto sono sciocco. Ero convintissimo che la richiesta della pubblica accusa sarebbe stata l’assoluzione di Nichi Vendola. Invece, la procura ne ha chiesto la condanna a cinque anni di reclusione. Lei molte volte ha ricordato che la prova si forma nel dibattimento, ma ascoltando le requisitorie ho avuto la sensazione che il processo fosse ancora fermo alla fase preliminare, e che tutto quello che abbiamo ascoltato nelle udienze sia stato sottovalutato».

Quando l’avvocato Vincenzo Muscatiello, difensore dell’ex governatore della Puglia, si rivolge con queste parole all’indirizzo di Stefania D’Errico, presidente della Corte d’assise di Taranto dove si tiene il maxiprocesso all’Ilva dei Riva, la sua arringa è alle prime battute. Ha esordito in puro stile vendoliano - «se interpretassimo il processo come una danza, dove in qualche misura tutti quanti danziamo insieme, se fosse possibile io vi chiederei di danzare, sperando poi di arrivare a un punto di vista che sia il più condiviso possibile». Ma un attimo dopo è partito all’attacco.

L’accusa

Vendola è accusato di concussione aggravata in concorso con altri quattro imputati: Fabio Riva, l’ex responsabile relazioni esterne Girolamo Archinà, l’ex direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso e l’amministrativista del gruppo, Francesco Perli. Vittima della concussione sarebbe stato il professor Giorgio Assennato, all’epoca al vertice di Arpa Puglia, l’Agenzia regionale per la prevenzione e la protezione dell’ambiente: per lui, che ha negato di avere mai subito pressioni, la procura ha chiesto un anno di reclusione per favoreggiamento.

Nella ricostruzione dell’accusa, tutto inizia il 21 giugno 2010, quando l’agenzia di Assennato rilascia una nota sulla qualità dell’aria nel quartiere Tamburi, situato a ridosso dell’acciaieria: secondo i dati riportati, le emissioni di benzo(a)pirene che avvelenano l’aria provengono senza dubbio dalle cokerie. Il documento, che «non è una sparata di associazioni ambientaliste», ha detto il pubblico ministero Remo Epifani nella sua requisitoria, «ma viene da un ente pubblico specializzato, con personale dalle competenze tecniche indiscutibili», propone di «richiedere alla società Ilva l’applicazione, in tempi brevissimi, di misure di riduzione/rimodulazione del ciclo produttivo, con l’allungamento dei tempi di sfornamento ad almeno 24 ore per forno, concentrate nei giorni in cui sono previste condizioni meteoclimatiche favorevoli alla diffusione degli inquinanti sul quartiere Tamburi» e l’attivazione di «un sistema di monitoraggio che consenta di verificare l’efficacia delle misure adottate». Se le misure si mostrassero inefficaci a riportare il benzo(a)pirene nei limiti, «potrà rivelarsi necessario imporre alla cokeria Ilva misure di riduzione produttiva più drastiche e risolutive».

«L’infaticabile Archinà»

Secondo la procura, le richieste mandano in fibrillazione la proprietà e allora «l’infaticabile Archinà», che «si fa portatore delle esigenze aziendali nei contesti politici», dà il via a una campagna «che ha come bersaglio la figura professionale, ma anche umana, di Assennato»: il professore in quel momento è a fine mandato e l’arma per indurlo ad «ammorbidire» la sua posizione sarebbe stata la minaccia – mai attuata – di non rinnovargli l’incarico. Minaccia che non poteva andare a segno senza l’attiva collaborazione del governatore Vendola, cui spettava il potere di nomina: nella costruzione del capo d’imputazione, l’autore materiale della concussione è lui, mentre Archinà, Riva, Capogrosso e Perli sono i concorrenti morali che «lo determinano» a concutere Assennato. Ma quali sono le prove a carico? Agli atti del processo c’è soprattutto una valanga di intercettazioni telefoniche, che vedono non in Vendola, ma in Girolamo Archinà il protagonista assoluto, e che ruotano intorno a tre eventi principali: un incontro Archinà-Vendola del 22 giugno 2010 in cui il presidente della regione avrebbe espresso giudizi durissimi su Arpa; una convocazione di Blonda, collaboratore di Assennato, il giorno seguente, per ribadire il concetto; infine, una riunione tra la regione e i vertici dello stabilimento, il 15 luglio, con Assennato lasciato fuori dalla porta. Nella sua requisitoria il pm Epifani ha cercato di giocare d’anticipo sulla difesa: «Potrebbe essere suggerito il dubbio che Archinà sia un millantatore, uno che ha voluto ammantare la sua persona di un prestigio o di un’influenza che forse non aveva, per ottenere maggiori vantaggi e ingraziarsi il suo datore di lavoro. Ma è una suggestione dalla quale dobbiamo tenerci molto lontani, perché non ha nessun appiglio nelle carte processuali».

L’appiglio

L’avvocato Muscatiello invece si è impegnato a fondo per dimostrare ai giurati che quell’appiglio c’è, passando in rassegna decine e decine di intercettazioni e facendo ascoltare brani delle registrazioni. «L’inganno è una forma di sopravvivenza», ha ironizzato, prima di delineare proprio il quadro di cui il pm invitava preventivamente a diffidare: «Archinà racconta spesso le cose in maniera pettinata, si potrebbe dire in ambiente giornalistico: alcune sono davvero ingenue, persino inutili», come quando dice di trovarsi a Bari e invece è a Taranto; dice di essere stato dal capo di gabinetto di Vendola, Francesco Manna, ma non è vero, perché quel giorno Manna era in Cina con Vendola (fonia 6250 del 2 luglio 2010); dice che lo ha chiamato Vendola e invece non si sono sentiti; dice che una riunione con un assessore è stata rinviata su sua richiesta, e invece l’ha rinviata l’assessore per un problema suo; soprattutto, parla di conflitti tra Vendola e Arpa di cui non ci sono riscontri, e così via. L’avvocato Muscatiello lo ha definito «un andamento schizofrenico, ma che in qualche misura fa parte del personaggio», per poi chiudere il capitolo dicendo che «Archinà è una brava persona, io non ho dubbi su questo, solo che è un narratore che ricorre spesso a delle sfumature linguistiche, sulle quali io non credo che sia possibile costruire una voce di attendibilità».

«La corda per impiccarci»

Per dimostrare che l’accusa è «immaginifica», il difensore di Vendola ha battuto molto anche sulle intercettazioni che recano una data successiva alla presunta concussione: ad esempio, nel Rit (acronimo che indica il numero identificativo del registro delle intercettazioni autorizzate dalla procura) Riva 4965 del 24 luglio, Fabio Riva e l’avvocato Perli commentano un’intervista al Tg3 in cui Assennato dice che il 99 per cento delle emissioni viene dall’Ilva: Perli dice che Assennato è «in mala fede» e che quasi gli viene voglia di fare una causa civile nei confronti dell’Arpa, perché con le sue dichiarazioni ha arrecato un gran danno all’Ilva. Nel Rit Riva 7062, a proposito di un’udienza davanti al Tar di Lecce - ha proseguito Muscatiello – Perli dice «che bastardi quelli dell’Arpa, Assennato li ha istruiti proprio bene». Nella 8027 è Fabio Riva a dire a Perli che «quel pirla di Assennato non può fare quelle dichiarazioni lì».

Muscatiello ha poi citato il tavolo tecnico del 23 luglio 2010, dove – anche qui a concussione avvenuta – la regione e Assennato chiedono di installare delle centraline di rilevamento all’interno dello stabilimento: anche in questo caso c’è un’intercettazione, in cui Perli dice a Fabio Riva «non vorrei ridare la corda a chi mi vuole impiccare» e Riva gli risponde «ti impiccano, ti impiccano, non abbia dubbi, ti impiccano». Insomma, secondo la difesa di Vendola, la procura ha avuto un approccio kafkiano: «C’è concussione anche se il concusso non se ne accorge», tanto è vero che i comportamenti di Assennato, dopo la presunta concussione, non si sono per nulla ammorbiditi.

Dal canto suo, Assennato in udienza era stato categorico: «Avrei alzato la gamba more canis (…). Non so se è chiaro. Mai avrei accettato qualunque minima intimidazione o pressione, persino suggerimenti nei confronti di Arpa o del mio personale comportamento».

La “primavera pugliese”

Per chiudere il cerchio, Muscatiello ha ripercorso le tappe di quella che ha definito una «primavera pugliese», rivendicando le iniziative, legislative e non, adottate da Vendola in materia ambientale durante i suoi due mandati da governatore: un elenco non breve, dalla legge sulla diossina a quella sul benzo(a)pirene, dall’introduzione del concetto di valutazione del danno sanitario all’introduzione del registro dei tumori, dalla revisione dell’Autorizzazione integrata ambientale (Aia) in senso sfavorevole a Ilva all’introduzione dei wind days, giornate caratterizzate da particolari condizioni meteorologiche che hanno un impatto negativo sulla qualità dell’aria, in cui le aziende sottoposte ad Aia devono ridurre le emissioni.

Se Vendola non è stato il “Papa laico” che le associazioni ambientaliste tarantine si aspettavano, per il suo avvocato di certo non è stato complice dell’Ilva: di qui la richiesta di assoluzione perché il fatto non sussiste.

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