Con la vittoria su Alcaraz a Pechino, Jannik sarà numero 4 al mondo come il romano nel 1976. Tutti e due di estrazione popolare, ma raggiunta la fama, uno si godeva la vita in libertà in Costa Smeralda con Villaggio e Tognazzi, dell’altro si trova al massimo un selfie al pub con gli amici di sempre. Paiono personalità lontane come i paletti che reggono la rete, ma potrebbe essere un equivoco
Facciamo un gioco: affinità e divergenze tra il compagno Panatta e Sinner. E sì perché, con lo sgambetto al fenomenale Carlos Alcaraz in semifinale a Pechino, Jannik è diventato il secondo giocatore italiano della storia a toccare la quarta posizione Atp. A riprova della rarità dell’evento, per scovare il suo unico antenato capace di tanto, bisogna riavvolgere il nastro fino a un giorno di fine agosto dell’anno analogico 1976: dopo aver trionfato nella sua Roma e a Parigi, qualche mese prima di fare tris con la Coppa Davis a Santiago del Cile, Adriano Panatta occupò la prima posizione utile sotto un podio intestato ai multislammer Jimmy Connors, Bjorn Borg e Guillermo Vilas.
Prima di tuffarci nel divertissement tocca spendere ancora qualche parola di cronaca. Sinner si è avvicinato alla sfida contro il suo grande rivale forte, sì, di precedenti in equilibrio (tre vittorie a testa, dieci set a nove). Tuttavia, l’ultima disfida Slam, un quarto di finale da lacrime e sangue agli Us Open 2022, nonostante un match point a favore, se l’era aggiudicata proprio quel diavolo di Alcaraz, sulla strada del suo primo grande centro.
Un anno dopo, in tutta franchezza il gap di rendimento pare essersi espanso a favore dello spagnolo, già titolare della vetta del ranking, rapace del titolo di Wimbledon a spese del senatore Djokovic e a quota quattro nella conta dei tornei Master 1000 (contro uno vinto dall’italiano). Non solo: il cammino verso la semifinale cinese ha trovato Sinner in affanno.
Crampi e ruzzolone contro Dan Evans (un britannico talentuoso e altrettanto rissoso, pronto a fargli il verso per la veloce guarigione dai dolori muscolari) e, addirittura, costretto ad abbrancare il bidone della spazzatura e a vomitarci dentro durante il match di quarti di finale contro Grigor Dimitrov, alias il generico di Federer – se Federer è il nome commerciale e brevettato del gioco del tennis. Non il miglior viatico, una volta sopite le meste campagne stampa contro la sua decisione di non rispondere alla convocazione in Coppa Davis a Bologna, per preparare la trasferta asiatica.
Né, soprattutto, per affrontare il babau del tennis, un avversario che ha la rabbia del rottweiler nelle gambe, il fuoco nelle mani e la tigna del rapace. Ciononostante, tamponato un avvio che poteva essere disarmante (due palle del 3-0 e servizio Alcaraz), a Sinner è riuscito di giocarsi buona parte degli scambi spalla a spalla. Trascinato il primo set al tie-break, terreno in cui Carlitos raramente stecca, è stato proprio il dritto-alabarda del murciano a fare pasticci.
Nel secondo set, quando si è sentito Alcaraz iniziare a smoccolare verso l’angolo dei suoi, è stato chiaro che Sinner avesse una chance. Bravissimo a salvare due turni di battuta nel secondo e quarto game, gli è riuscito ciò che il resto del mondo tennistico non riesce manco a concepire: portare Carlitos al punto di rottura, a strafare e a buttare via gli ultimi game. Uno sforzo monumentale che i bookmaker, per necessità tra i più grandi esperti di tennis avendo come contraltare la bancarotta, sottolineavano con quote scoraggianti: Sinner veniva pagato 4 volte (toh, quattro) la puntata.
Dai Parioli all’Alto Adige
A voler tirare un filo immaginario dalla val Fiscalina al tennis club Parioli, nel quale il piccolo Panatta cresceva all’ombra del tuttofare del circolo romano, il signor Ascenzio, c’è l’estrazione popolare. Famiglie di lavoratori, pochi agi e basso profilo. Similitudini che, però, finiscono lì: raggiunta la fama, Panatta si faceva fotografare in Costa Smeralda nella pausa tra Parigi e Wimbledon, oppure aspettava Villaggio e Tognazzi per fare serata nei locali prima di una semifinale a Monte Carlo.
Si godeva la vita in libertà, in un suo equilibrio ideale tra vita da atleta e quell’istintivo carpe diem «perché in fondo cosa eravamo, se non ragazzi in mutande che tiravano a una pallina». Del metodicissimo Sinner, al più, si trova un selfie al pub con gli amici di sempre.
Dopodiché, sarebbe disonesto vaticinare un futuro di successi superiore per Sinner rispetto ad Alcaraz. Ma un’altra similarità si può cogliere in questo: non si può affermare che Panatta sia mai stato il giocatore più forte del mondo. Certamente è esistito un campione più forte di lui, più continuo, col centuplo delle medaglie e che, tuttavia, non riusciva a decrittare il suo tennis. Era Bjorn Borg, il rullo della terra battuta – non che sull’erba sfigurasse, con cinque Wimbledon filati.
Una macchina da tennis tanto inscalfibile da rifilare parziali scoraggianti a campioni come gli stessi Vilas e Connors, ma anche al nostro valente Barazzutti. Che, dopo la semifinale di Parigi ’78 (6-0 6-1 6-0) gli strinse la mano così: «Bjorn, scusa se ti ho vinto un game». Alcaraz è quel tipo di animale tennistico: se non hai difese, ti annienta. Lo ha già “assaggiato” un superatleta come Daniil Medvedev, sfidante di Sinner in finale a Pechino.
Ne sa qualcosa pure Stefanos Tsitsipas, più volte umiliato da Carlitos. Ecco: uno splendido colpitore come Lorenzo Musetti, vittima dello spagnolo in questo stesso torneo l’altro giorno, è un esempio di quanto sia necessario essere immunizzati rispetto al virus che il ritmo infernale di Alcaraz inocula nei suoi avversari. Se mancano le difese, i tabelloni sono destinati a mostrare sfilze di 6-1, 6-2 e 6-3.
Sinner, fin dai primi incroci col suo rivale, ha mostrato di essere l’antidoto vivente ad Alcaraz, come Panatta lo era di Borg. Con mezzi differenti: Adriano, per entrare nei circuiti stampati del computer svedese, portava in campo la classe, l’inventiva, le veroniche, i serve&volley. Sinner no, resta ben piantato a fondo mancandogli, peraltro, la “mano” per soluzioni troppo raffinate ma riesce da un lato a parare le pallate di Alcaraz senza farsi sopraffare da un’intensità bestiale imposta allo scambio, dall’altra tenere una velocità media tanto alta da mettere in testa al nemico, abituato a spadroneggiare, qualche raro dubbio.
L’equivoco
Se, poi, due personaggi come Sinner e Panatta paiono personalità lontane come i paletti che reggono la rete, potrebbe essere un equivoco. Certo, la romanità di Adriano emergeva in quel sottofondo di sfottò e di ironia irrintracciabile nelle dichiarazioni standard di Jannik.
Ma entrambi preferiscono far parlare la racchetta: il casino uno lo lasciava a Connors e McEnroe, l’altro a Kyrgios, allo stesso lunatico Medvedev, al collerico Rune. A entrambi piace sentirsi e dimostrare di essere i migliori piazzando la palla fuori dalla portata altrui e non con spacconate verbali. A dividerli, per ora, il traguardo di uno Slam e non è solo questione di Alcaraz sì o Alcaraz no: Sinner va in affanno contro Medvedev (0-6), Zverev (1-4), Djokovic (0-3) Rune (0-2) così come Panatta soffriva Connors (2-9), Vilas (2-7) o Gerulaitis (3-7).
Adriano aveva un gioco da campi rapidi, eppure vinse su terra rossa. Sinner ha un gioco da fondocampista e, finora, il suo miglior Slam è stato Wimbledon. La buona notizia è che, ormai, coi palleggi si vince dappertutto. L’altra è che, in Alto Adige, le barche a vela in ogni caso non attraccano.
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