La prima volta in Formula 1 Andrea Kimi Antonelli aveva otto anni e si nascose dentro una pila di pneumatici. Erano al Gp di Hockenheim, e per farlo entrare nel paddock senza pass Marco, suo padre, lo infilò dentro le gomme e lo coprì con un ombrello. Funzionò.

Dieci anni dopo Kimi debutta in F1 come pilota: non proprio dal basso, visto che guiderà la Mercedes lasciata libera da Lewis Hamilton. Dei cinque esordienti nel Mondiale che scatta a Melbourne – gli altri sono l’inglese Oliver Bearman, il francoalgerino Isack Hadjar, il brasiliano Gabriel Bortoleto e l’australiano Jack Doohan, figlio del 5 volte campione del mondo di MotoGp Mick – il più giovane è proprio il bolognese, che debutterà a 18 anni e 203 giorni.

Più precoci di lui nella storia soltanto due piloti: l’olandese Max Verstappen, che esordì sulla Red Bull a 17 anni e 170 giorni (e il primato non glielo toglierà nessuno perché nel frattempo le regole della Fia sono cambiate: la F1 adesso è interdetta ai minorenni), e il canadese Lance Stroll, che la prima volta aveva 18 anni e 153 giorni, non aveva ancora la patente (però era straricco di famiglia, e questo aiuta per farsi strada in F1).

Antonelli la patente l’ha presa a fine gennaio, ma ha ancora un esame importante da superare: è iscritto al quinto anno di Relazioni Internazionali all’istituto tecnico Salvemini, e in estate lo aspetta la maturità. La storia dello sport è piena di talenti sempre più precoci, e l’automobilismo non fa eccezione. La sentiamo già l’obiezione: un conto è saltare in lungo, giocare a tennis o fare uno slalom sugli sci, tutt’altra cosa è arrivare a 350 all’ora sdraiati in una monoposto. Dipende. Se lo fai da quando sei nato, a diciotto anni sei già un pilota esperto.

EPA

Il più anziano

Fernando Alonso oggi è il più vecchio della F1: compirà 44 anni il prossimo luglio, questo è il suo ventiduesimo Mondiale, e correrà contro sei piloti che non erano ancora nati quando lui ha debuttato. Eravamo sempre in Australia, il 4 marzo 2001, e lo spagnolo aveva 19 anni, 7 mesi e 4 giorni: guidava la Minardi, chiuse dodicesimo. Lando Norris esordì a Melbourne il 17 marzo 2019, a 19 anni, 4 mesi e 4 giorni, su McLaren: anche lui dodicesimo. In passato ci sono state meteore come il messicano Ricardo Rodriguez (morto nel 1962, a 20 anni, nel gran premio di casa), il neozelandese Mike Thatchwell (partito due volte negli anni 80, mai arrivato al traguardo) o il catalano Jaime Alguersuari (45 gare dal 2009 al 2011, mai oltre il settimo posto), ma ci sono al contrario esempi virtuosi.

Seb Vettel si è convertito da talento precoce a più giovane campione del mondo di sempre: aveva appena compiuto 23 anni. Poi è arrivato Verstappen, che ha infranto molti record con il suo dono speciale: il più giovane ad andare a punti (Malesia 2015, 17 anni e 180 giorni), a vincere un gran premio (Spagna 2016, 18 anni e 228 giorni), a fare un giro veloce (Brasile 2016, 19 anni e 44 giorni). Corre da quando aveva quattro anni e il papà, l’ex pilota Jos, lo mise sui kart.

Quando erano piccoli i grandi

Un percorso classico. Milton Senna costruì il primo go-kart per suo figlio Ayrton utilizzando un tosaerba, e con quello il bimbo sfidava i suoi vicini di casa a 60 orari. Anni dopo, già campione del mondo, avrebbe ricordato il go-kart come «l’esperienza di guida più pura». Michael Schumacher aveva 4 anni quando suo padre mise un motore sul suo kart a pedali, Vettel ne aveva addirittura 3 quando il papà falegname lo portò a guidare. Lo stesso Hamilton cominciò a correre sui kart a 8 anni per sfuggire al bullismo. Ne aveva 12 quando la McLaren lo mise sotto contratto, ne aveva già 22 quando sbarcò in F1. Soltanto lui e Schumacher hanno vinto 7 Mondiali. «Non saprò mai come sarebbe andata se ci fossi arrivato prima. Come diciannovenne ero molto immaturo. Mi mancava il know-how chiave di come funzionano le cose e di come dovrebbe funzionare una squadra».

EPA

Il suo attuale compagno di squadra, Charles Leclerc, cominciò a 6 anni con una bugia: non aveva voglia di andare a scuola e disse che non si sentiva bene, così suo padre se lo portò dietro al kartodromo gestito dal suo amico Philippe Bianchi. Quel giorno Charles provò il primo kart, ovviamente rosso, capì cosa voleva fare nella vita e conobbe Jules, il figlio di Bianchi, che sarebbe diventato il suo amico e modello. Leclerc cominciò subito a vincere sui kart, dov’era conosciuto come CL. Con lui c’erano anche Pierre Gasly ed Esteban Ocon, oggi in F1. E nel 2013, al campionato del mondo CIK-FIA KZ di Varennes, Charles incrociò per la prima volta un giovane talento olandese. Risultato: primo Verstappen, secondo CL.

Il vezzo di quel nome

La vita di Antonelli si è svolta tutta in mezzo ai motori. Il nome, per cominciare. Kimi era giusto un vezzo, impossibile da storpiare in qualche diminutivo, sembra strano ma non c’entra con Raikkonen (che pure correva in Formula 1 quando è nato Antonelli). Allo stesso modo sua sorella si chiama Maggie: non Margherita, non Margaret, Maggie e basta. Papà Marco è un ex pilota, che ha fondato una squadra impegnata nei kart e in Formula 4. Mamma Veronica lavorava alle poste, ma da 28 anni aiuta suo marito nel paddock. Kimi aveva un mese e dormiva già nel paddock, cullato dal rombo dei motori, mentre i suoi lavoravano.

ANSA

Quando aveva 5 anni lo portarono a correre in kart, guidava un Delfino da 35 cc, e Marco cominciò a intuire qualcosa di speciale, «mi incantavo a vedere come faceva le traiettorie, come impostava le curve». In tivù Kimi guardava Formula 1 Retro così poteva parlare con gli adulti delle gare immortali del passato. Non aveva ancora 9 anni quando lo chiamarono sul palco a una festa dell’Automobile Club Bologna per premiarlo per i risultati ottenuti nei kart, e chi c’era non l’ha più dimenticato. La presentatrice andò con la domanda standard: Kimi, cosa vuoi fare da grande? Lui, serio: «Diventerò un pilota di Formula 1».

I cuscini sul sedile

Aveva 10 anni quando il papà lo portò a correre in pista ad Adria, su una Lamborghini. Lo teneva sulle ginocchia: Marco frenava e accelerava, Kimi cambiava e guidava. Non poteva essere soltanto passione, quello era talento. Poche settimane dopo erano alla 24 ore di Le Mans: Kimi era così piccolo che non arrivava al volante, ma si impuntò, voleva guidare. Allora gli misero un paio di cuscini sul sedile e lo piazzarono al simulatore, a fare una gara con i piloti che avrebbero corso nel week end. Vinse lui. Giovanni Minardi lo teneva d’occhio da un paio d’anni, e lo segnalò alla Ferrari, che preferì non rischiare investendo su un bambino di 10 anni.

Kimi ne aveva appena compiuti 12 quando la Mercedes lo mise sotto contratto. Nella casa di Casalecchio di Reno a una parete blu come il cielo sono appese due foto di Senna sulla McLaren: Montecarlo e Spa. È il pilota del cuore di Kimi, anche se è morto dodici anni prima che lui nascesse. «Ho visto tutti i video, letto tutti i libri, so che era speciale». Ama il calcetto, quando può va a vedere il Bologna al Dall’Ara e le partite di basket della Virtus, adora i videogiochi. Come un diciottenne qualunque. Se non fosse che di fianco al divano c’è il simulatore Mercedes che Kimi usa per allenarsi. Non è cambiato poi molto da quando era piccolo e in camera sua c’era un poster di Spiderman – ha la passione dei supereroi – e macchinine dappertutto. Sua madre ha raccontato che era un bimbo tranquillissimo. «Era come non averlo. Si perdeva per ore a giocare, metteva in fila una ventina di macchinine, faceva gare e le telecronache. Tutto da solo. E ovviamente vinceva lui». Non ha fatto che immaginare questo momento per tutta la vita.

© Riproduzione riservata