Le vicende giudiziarie legate al processo Becciu sono tornate all’attenzione della stampa internazionale. Si attende per la fine del mese il deposito delle motivazioni della sentenza che il 16 dicembre dello scorso anno ha condannato il cardinale ed altri 6 imputati per vari reati di peculato, truffa, riciclaggio ed estorsione: quasi mille pagine, frutto di 6 mesi di elaborazioni del Tribunale a fronte dei quali il codice vaticano concede ristrettissimi margini di tempo ai difensori per presentare appello.

Ha fatto clamore l’iniziativa giudiziaria di uno degli accusati, il finanziere Raffaele Mincione che ha richiesto alla sezione commerciale dell’Alta Corte di Giustizia di Londra un accertamento incidentale di totale estraneità e di aver agito correttamente nella trattativa che aveva ad oggetto l’acquisto da parte del Vaticano di un palazzo in Sloane Avenue. Una procedura destinata a ottenere un pronunciamento favorevole di un’autorità giudiziaria straniera per incidere su di un processo ormai divenuto, contro la volontà della Santa Sede, un grave incidente di diritto internazionale. Parallelamente, il finanziere ha denunciato all’ONU il Vaticano per violazione dei suoi diritti.

Tale situazione impone una riflessione in un’epoca in cui il tema dei diritti umani e delle corti internazionali è di stretta attualità. La vicenda dell’ex palazzo di Harrod’s ha costituito l’oggetto principale del processo vaticano per oltre due anni, ma va subito detto, giacché in molti non hanno capito o fingono di non capire, che la famosa truffa immobiliare è crollata: il tribunale non ha ritenuto configurabile alcun reato nella trattativa. I sette imputati sono stati condannati per altre ipotesi di reato alcune delle quali addirittura non comprese nel capo d’imputazione e messe su frettolosamente in chiusura del dibattimento dal promotore Diddi per mantenere in piedi una costruzione accusatoria traballante ed evitare una storica figuraccia.

Il processo ha suscitato polemiche e prese di posizione anche nell’ambiente accademico con articoli critici di alcuni eminenti canonisti come i professori Geraldina Boni e Paolo Cavana.

L’intervento di Diddi

Nella polemica è entrato a gamba tesa anche il promotore di giustizia, Alessandro Diddi, che ha ritenuto con prassi inusuale di dover replicare a Cavana e Boni sulle pagine della rivista che li aveva ospitati. Due i temi centrali della replica: l’indipendenza dei magistrati vaticani (per i quali non è previsto concorso ma solo la chiamata diretta del Pontefice) e la lamentata invalidità di 4 provvedimenti amministrativi emessi dal Papa (Rescripta ex audentia) dietro richiesta del promotore, con cui sono stati concessi pieni poteri d’indagine e di arresto per l’accusa in deroga alle norme ordinarie.

In base a essi, egli ha disposto l’arresto di due imputati e l’intercettazione a tappeto della Segreteria di Stato, il governo vaticano, la cui sorte e contenuto non è dato conoscere (le captazioni non utilizzate, la maggior parte, sono state distrutte o sono in mano alla gendarmeria e per che uso?).

Le argomentazioni sono sorprendenti: quanto al primo punto Diddi rivendica la legittimità della scelta diretta dei propri magistrati da parte del Papa impropriamente evocando la scelta di giudici costituzionali delegata al presidente della Repubblica.

Dimentica che tale facoltà è condivisa dal presidente con il parlamento e la corte di cassazione che invece i giudici li eleggono e che esiste una qualche differenza tra i poteri del presidente e quelli assai più vasti concentrati nel pontefice, capo dell’esecutivo, del giudiziario e del legislativo.

L’assunzione dei magistrati per concorso pubblico è la regola degli Stati di diritto e consentirebbe una scelta più ampia del ristretto ambito accademico-forense romano cui sino ad oggi il Vaticano ha attinto in via esclusiva per tali delicati incarichi.

Quanto ai rescripta Diddi minimizza assumendo che con essi si sia semplicemente posto riparo ad alcuni buchi legislativi e che comunque non abbiano inciso sul processo.

Anche qui egli commette un grave peccato di omissione per un giurista: dimentica che ciò che rende inaccettabili i provvedimenti di pieni poteri concessi a lui (compresi arresti ed intercettazioni) è il fatto che sono stati disposti dal pontefice solo per questo procedimento e solo per questi imputati.

Una violazione gravissima del principio di legalità ed uguaglianza: come può parlare di pure “correzioni di legge” se la legge è stata modificata solo per sette individui? E come può essere valido un processo all’interno di un sistema non imparziale, garantista?

Tuttavia va colto il segnale che il promotore lancia in conclusione dello scritto: è importante che tramite lui il Vaticano esprima la volontà di elevare il proprio ordinamento agli standard più alti degli stati di diritto.

Ma vi è una sola strada: l’adesione piena alla Convenzione europea dei diritti umani. Il Vaticano ha aderito, e Diddi lo ricorda a diverse convenzioni in tema di diritto finanziario e contro la corruzione, faccia l’ultimo passo e sottoponga la propria amministrazione giudiziaria al controllo di legalità delle corti internazionali. Garantisca agli imputati ciò che le democrazie concedono a tutti i cittadini. Ne guadagnerà la credibilità del sistema e la causa dei diritti così a rischio oggi.

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