Riassaggiare il cibo da liberi ha decisamente un altro sapore. Perché da quel momento in poi lo puoi rifare, lo decidi veramente tu cosa metti in bocca. La pelle del latte, quando bolle troppo, la puoi buttare
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
C’è una strana atmosfera con gli amici e le amiche, riuniti in una festa dove, forse, non c’è niente da festeggiare. È il giorno prima della sentenza, giuridica, che può cambiare una vita e l’amico Mattia ride e scherza, anche se ha il cuore appesantito, ci sono birre e qualcuno ordina delle pizze. Esistono momenti in cui il cibo è uno spartiacque, assume significati profondissimi: la prima pastasciutta, le polpette della nonna da piccoli, gli ultimi pasti prima della morte. E ci sono, qualche volta, casi speciali, dove si vive e poi si muore per un po’ per, infine, rinascere.
Andare in carcere è uno di questi. Che sapore ha l’ultima pizza da persona libera? Quale il primo pasto da condannato? E cosa significa tornare a casa, dopo anni, e ritrovare il cibo di mamma?
«Io la mia ultima pizza con gli amici non la ricordo per davvero» racconta Mattia Gigli, che in realtà ha un altro nome, davanti a una birra. «Pensavo a voi, alla convivialità, non a cosa stavo mangiando. E poi il mio ultimo pasto vero è stato un lungo aperitivo con quattro birre di fronte al carcere aspettando la sentenza. Sono entrato dentro la sera tardi, consegnandomi, piuttosto brillo».
L’ultimo pasto forse non è quello più memorabile: c’è, esiste, ma il cuore e la testa sono troppo appesantiti. Il primo pasto dentro, però, non si scorda mai.
«Il primo pasto in carcere me lo ricordo eccome, invece» racconta Gigli. «Sono entrato la sera, perciò il primo vero pasto era quello del giorno dopo. Ero in isolamento per una settimana (per via del Covid, ndr), la settimana più lunga della mia vita, e passa il cuoco con il carrello. Guardo quella roba, pasta, un secondo e un contorno dall’aspetto terrificante e mi rifiuto. In quel momento ho imparato quanto importante è il cibo in carcere: il cuoco mi disse “Guarda che qui stai in carcere, devi mangiare”. E mangiai. E mi sentii meglio perché, per quanto il tuo stomaco in un momento drammatico possa essere chiuso, per quanto tu possa essere depresso, mangiare ti fa sempre sentire meglio».
Il significato del cibo
Il cibo in carcere è fondamentale, importantissimo. È attraverso il cibo che ti interfacci davvero con gli altri detenuti: i pranzi e le cene sono i veri momenti di convivialità, quelli in cui ci si siede e si è tutti alla stessa tavola, allo stesso livello, ci si confronta a nudo e, talvolta, con qualche codice di condotta da seguire.
Ed è essenziale anche per la salute psico-fisica di chi sta dentro. L’atto del nutrirsi è atto umano, dona forza e rilassa lo spirito, anche nel caso del carcere, dove la qualità non è, come si può intuire, una prerogativa. «Il cibo che viene servito, tre volte al giorno – colazione con della frutta e pranzo e cena con primo, secondo e contorno – sembra essere fatto, spesso, con il peggio di un supermercato di bassa qualità» racconta Gigli. Come ha scritto Nello Trocchia su Domani nell’aprile 2022, la situazione degli appalti per l’approvvigionamento è affatto trasparente: tra monopoli e gare al ribasso fino a 3,19 euro per detenuto per tre pasti al giorno, decisamente insufficiente a garantire una seppur minima qualità.
«Certe volte è roba non propriamente commestibile, generalmente carne rossa, frutta e verdure crude. E la pasta, dato che viene cucinata per moltissime persone, è il più delle volte scotta. Però ci sono delle volte in cui i cuochi, che sono sempre detenuti e quindi cambiano spesso, ti potenziano un po’ la pasta, si sbizzarriscono, usando per lo più spezie perché gli ingredienti sono contati, o tirando via la pasta molto prima del dovuto per non farla scuocere». In Italia non esistono le mense come siamo abituati a vedere nei film americani. In Italia passa, per ogni sezione, il cosiddetto carrello, da cui viene servito nella gavetta in dotazione nel vitto, da mangiare. Si mangia in cella ed è per questo che il pasto è un momento così importante, lega le persone come una piccola famiglia.
«Un detenuto, quando passa il carrello, può anche decidere di non prendere il cibo, perché magari si cucina da solo in cella» racconta Gigli. «Io, per esempio, con il mio primo compagno di cella, fissato con il corpo e la palestra, mangiavo per lo più cose come uova (a volte quattro uova al giorno) o pollo, comprati attraverso la lista che viene fornita».
Un detenuto ha il diritto al vitto, con una spesa di circa 100 euro mensili che comprende anche coperte, luce, acqua e nel caso di allergie o intolleranze si può richiedere un vitto speciale che, in genere, costa un po’ meno. Ma ha anche il diritto di comprare la sua spesa: in questo caso si compila una lista prestampata nella quale figurano beni di prima necessità come il caffè, ma anche verdure, carne e pesce che vengono pagati separatamente attraverso un conto che ognuno ha in carcere.
«Anche in questo caso la roba che arriva è di cattiva qualità» racconta Gigli. «E costa molto più di quanto costerebbe in un supermercato. I gamberoni argentini surgelati, per esempio, costavano 10 euro al pacco. E per qualche ragione è tradizione, almeno dove stavo io, nel nord Italia, mangiare questi gamberoni a Ferragosto. C’è chiaramente una puzza infernale». C’è anche una terza via, però. «Il cibo può anche essere spedito da casa, con delle regole naturalmente: non puoi ricevere cibi cotti, e praticamente tutto deve essere sottovuoto. Il guanciale entra, per esempio. Eccome se entra. E quando entrava cucinavo carbonara per tutti, sul fornelletto da campeggio in cella».
Uscire per rivivere ricordi
Una parte di vita scandita da farfalle al sugo, spezzatini tremendi e ancora pasta panna e piselli, scandita per non perdere la testa e per restare umani. Che, nella maggior parte dei casi, poi finisce. «Non un momento di buio, però. In carcere ho imparato cos’è il tempo, cos’è l’umanità nel suo intimo, nella sua purezza. Quando sono uscito, un giorno di luglio di quest’anno, ho preso le mie cose e sono andato a prendere il treno per Roma, per casa, stravolto, come se un peso enorme mi sia fluito fuori tutto insieme».
Riassaggiare il cibo da liberi ha decisamente un altro sapore. Perché da quel momento in poi lo puoi rifare, lo decidi veramente tu cosa metti in bocca. La pelle del latte, quando bolle troppo, la puoi buttare.
«La prima cosa che ho mangiato tornato a casa è stata una mozzarella di bufala, che era la fine del mondo, mi era mancata da morire. Mio cugino è anche andato da un pizzicarolo a prendere prosciutto, pizza bianca e porchetta. Porta queste cose a un romano e lo fai la persona più felice del mondo. E poi, certo, quando sono tornato a casa mamma mi ha cucinato le fettine panate, le mie preferite. Tornare a casa la sera con il profumo è bellissimo. Non è come tornare bambini però, non torni davvero indietro, è un passaggio strano, forse indefinibile».
Ecco che la vita è a volte una serie di passaggi di morsi, di piaceri palatali, che sono quelli che, certo, ci rendono umani.
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