I clan originari della Calabria hanno conquistato le valli alpine. Fin dagli anni Ottanta nel silenzio generale.Tra affari nelle cave di Porfido, complicità imprenditoriali e politiche, agganci in tribunali e procure
- È in questa pianura incastonata tra le montagne al confine con l’Alto Adige che si è radicata la ‘ndrangheta calabrese, che qui ha perso la connotazione territoriale per diventare una ‘ndrangheta trentina.
- Gli uomini dei clan «sono riusciti a conseguire cariche istituzionali sia nell'ambito amministrativo che in quello della politica locale, ricoprendo ruoli strategici nei consigli comunali condizionando elezioni e scelte delle amministrazioni».
- Magistrati, prefetti, primari. Per interloquire con questi mondi è necessaria una cerniera che saldi due mondi, quello istituzionale e quello criminale. Secondo i carabinieri del Ros questa cerniere corrisponde al nome di Giulio Carini, imprenditore, nominato cavaliere della Repubblica due anni fa e personaggio molto noto nella provincia di Trento.
Poche case, le Alpi che circondano la valle dove sorge un lago, il lago Lases. Lona Lases è un paese di nemmeno 900 abitanti nella Val di Cembra, una ventina di chilometri a nord est di Trento. È in questa pianura incastonata tra le montagne al confine con l’Alto Adige che si è radicata la ‘ndrangheta calabrese, che qui ha perso la connotazione territoriale per diventare una ‘ndrangheta trentina. La stessa mutazione avvenuta in Lombardia, Emilia, Piemonte, Liguria, Germania. La mafia calabrese è maestra in questo genere di trasformazioni genetiche. Una mafia capace di attrarre imprenditori di primissimo piano, generali, cavalieri del lavoro, politici e persino magistrati con ruoli di vertice negli uffici giudiziari di Trento. Andiamo con ordine e partiamo dai soldi, che alimenta relazioni e mercanzia di favori.
La ‘ndrangheta in Trentino si è insediata «negli anni Ottanta», scrive il giudice per le indagini preliminari che ha firmato l’ordinanza di arresto per 19 persone, coinvolte nella recente inchiesta condotta dalla procura antimafia di Reggio Calabria, dal Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri guidato da Pasquale Angelosanto e dalla guardia di finanza. Tra gli indagati oltreché imprenditori, cavalieri del lavoro, anche tre politici: sindaci in carica, ex primi cittadini ed ex parlamentari. E c’è anche un’ex senatore della Lega, ma solo citato nell’intercettazioni.
L’affare delle cave
Il capo del clan trentino è un calabrese: si chiama Innocenzo Macheda, detto "Cecio", espressione del potente clan Serraino, che domina in un paese di nome Cardeto a pochi chilometri da Reggio Calabria. Serraino è una famiglia che ha segnato la storia criminale della ‘ndrangheta soprattutto tra gli anni Settanta e Novanta. Erano nell’olimpo dell’organizzazione e potevano contare su agganci politici e massonici.
Macheda, dunque, porta con sé nella valli trentine una storia di tutto rispetto. «Era inevitabile che nel mirino» dei boss finisse una delle risorse più pregiate del territorio: le cave di porfido della Val di Cembra, una pietra pregiata definita oro rosso. E in effetti, sottolineano i detective dei carabinieri del Ros, «gli inquisiti hanno acquisito il monopolio locale nei settori dell'estrazione e lavorazione del porfido».
E quando si entra nel giro giusto si aprono anche le porte delle istituzioni: «Sono riusciti a conseguire cariche istituzionali sia nell'ambito amministrativo che in quello della politica locale, ricoprendo ruoli strategici nei consigli comunali condizionando elezioni e scelte delle amministrazioni».
La ‘ndrangheta nelle valli alpine si è imposta non con la forza delle armi, ma realizzando «una rete di attività relazionali con esponenti delle istituzioni locali, anche di elevato livello e ha costituito un'associazione - "Magna Grecia" - destinata a darle una veste diautorevolezza e rispettabilità nel tessuto sociale». Dalla Lombardia all’Emilia la strategia dei padrini non cambia: si presentano come imprenditori, finanziando iniziative, organizzando eventi culturali e sociali. E sono in molti a credere, per convenienza, a questa identità pulita, depurata dai crimini del passato.
Porfido e voti
Il sindaco di Lona Lases è stato eletto nel 2018 per una manciata di voti, appena sei, raccolti per lui dal clan, sostengono i magistrati. Voti decisivi: alle elezioni del 2018 correva solo la sua lista e se non si fosse raggiunto il quorum non sarebbe stato eletto.In consiglio comunale è entrato anche Pietro Battaglia, uomo della cosca, che oltre a gestire le entrate delle aziende attive nelle cave di Porfido, «procacciava voti per le elezioni comunali di Lona Lases del 2018, riuscendo nell'intento di far eleggere Roberto Dalmonego a sindaco».
Il primo cittadino di Lona Lases è un cinquantenne, dipendente della federazione trentina allevatori, già sindaco dal 1995 al 2002 e a capo dell’Asuc di Lases. Le Asuc trentine sono nate nel’87 con l’obiettivo di rappresentare gli associati «davanti alle Autorità costituzionali ed amministrative dello Stato, della Regione, della Provincia e degli altri Enti».
Oltra e Dalmonego è indagato Mauro Ottobre, del partito autonomista trentino, deputato fino al 2018: «A novembre vota ottobre», era il suo slogan elettorale. I clan gli avrebbero promesso un pacchetto di voti per le elezioni provinciali del 2018. «Sono sereno e tranquillo e confido nel lavoro della magistrati», ha commentato. Sotto inchiesta è finito anche l’ex sindaco di Frassilongo Bruno Groff. Con gli uomini della cosca avrebbe organizzato una cena per ottenere voti.
Cavalieri e magistrati
Magistrati, prefetti, primari. Per interloquire con questi mondi è necessaria una cerniera che saldi due mondi, quello istituzionale e quello criminale. Secondo i carabinieri del Ros questa cerniere corrisponde al nome di Giulio Carini, imprenditore, nominato cavaliere della Repubblica due anni fa e personaggio molto noto nella provincia di Trento.
«L’associazione mafiosa calabro-trentina provvede a darsi anche una facciata di rispettabilità. Allo scopo lavorano non solo l'Associazione Magna Grecia, ma anche Giulio Carini, vero e proprio faccendiere in grado, anche per livello professionale e culturale, di attrarre nella sua ragnatela personaggi di spicco, che possono tornare utili».
Il cavalier Carini frequenta l’ex prefetto di Trento, ufficiali, politici, medici e magistrati di alto rango. Con loro imbastisce pranzi e cene a base di capra, piatto tipico della provincia di Reggio Calabria. Per dirne una: le intercettazioni rivelano che con il presidente del tribunale di Trento, Guglielmo Avolio, si chiamano «compari». Con Amelio e con un sostituto della procura generale, Giuseppe De Benedetto (prima alla procura di Trento), organizzano una cena al ristorante Clandestino. Secondo gli inquirenti, «scopo di Carini nell'imbastire il convivio è verosimilmente quello di cercare di attingere notizie, in relazione all'avviso di proroga indagini per il reato di associazione mafiosa che gli è stato erroneamente notificato».
Il giudice Avolio però non è in contatto soltanto con Carini. Un altro indagato, Domenico Morello, racconta di un secondo incontro conviviale, durante il quale avrebbe voluto chiedere al presidente alcune questioni importanti su una vicenda giudiziaria: «Verso il 20 sarà a cena col presidente del Tribunale, con diversi amici, lo porterà da parte, e intimandogli di porre fine a questa vicenda, in quanto si è rotto i coglioni», scrivono i detective dell’Arma. Storie di un Trentino oscuro e sconosciuto.
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