Come classe di lavoratori i calciatori sono da sempre soggetti mobili, vocati allo spostamento territoriale che presto diventa migrazione internazionale. Un libro scritto da Molinari e Toni fa la storia di un flusso ininterrotto che precede la globalizzazione e ne costituisce un’infrastruttura culturale
Un flusso ininterrotto. Quella dei calciatori è la classe lavoratrice migrante per eccellenza, vocata al ricollocamento continuo e per tutto il periodo di durata della carriera agonistica. Questa propensione è al tempo stesso assecondata e resa necessaria dal fatto che il calcio è un ecumene globale per eccellenza, una fra le prime infrastrutturazioni di quel processo che soltanto a partire dagli Anni Ottanta abbiamo imparato a denominare “globalizzazione” ma che nella realtà germinava da tempo.
Del resto, il calcio stesso è dalle origini un fenomeno culturale itinerante, che ha come culla e centro di diffusione l’impero britannico (con buona pace di chiunque vagheggi altre primogeniture, rivendicando improbabili continuità storiche a partire da giochi della profonda pre-modernità) e viaggia lungo rotte sia commerciali che militari per svolgere una missione di pagana evangelizzazione.
Con l’effetto che poi, come capita a ogni fenomeno globale, ogni contesto locale svolge una pratica di appropriazione e si rende domestico quel gioco pretendendo di averne effettuato una reinvenzione.
Rimangono due costanti: che il gioco si gioca con la medesima modalità a qualunque latitudine, e che i suoi attori (cioè i calciatori, ma anche gli allenatori) sono una categoria disposta alla mobilità continua e di lunga percorrenza. Hanno aperto la strada all’idea di società globale interconnessa e contribuito a edificare un senso della mobilità internazionale quando ancora i confini territoriali dello stato-nazione possedevano ben altro senso dell’inviolabilità.
Migranti del pallone
Alla storia delle migrazioni calcistiche è dedicato un volume scritto da Alberto Molinari e Gioacchino Toni. Il suo titolo è I migranti del pallone - I calciatori stranieri in Italia. Un secolo di storia (Le Monnier, pagine 295, euro 24, prefazione di Sergio Giuntini). Un libro prezioso e necessario, che prende in carico la missione di compiere una vasta ricognizione e porre dei punti fermi, intorno a un fenomeno di cui continuamente si parla ma con rigore scientifico e adeguatezza di documentazione molto relative.
Invece nelle pagine di questo libro si compie un’indagine sistematica sul fenomeno, mettendone in mostra le radici culturali e la capacità di adattamento ai mutamenti sociali e economici sopraggiunti nel corso di oltre un secolo di storia calcistica. Il lavoro di approfondimento e analisi viene condotto con riferimento al caso italiano, ma le dinamiche illustrate per spiegare un fenomeno così vasto sono le medesime osservabili in altri contesti nazionali. Con rarissime eccezioni, quasi nessun paese al mondo è rimasto estraneo alla migrazione internazionale dei calciatori.
Piuttosto va rimarcato che nel vasto mercato dei trasferimenti, favorito dalla precoce professionalizzazione del calcio rispetto alle altre discipline sportive, il nostro paese rimane un caso di studio particolare per almeno due motivi: primo, perché da sempre i nostri club sono fra i principali e più generosi compratori sui mercati esteri; secondo, perché l’atteggiamento dell’opinione pubblica, ma anche di parte della società politica, nei confronti dell’afflusso di calciatori stranieri nel nostro paese è stato a più riprese parecchio umorale.
Le prese di posizione contro ciò che è definito “eccesso” di calciatori stranieri sono una presenza ciclica nel nostro calcio, oltre ad aver prodotto un quindicennio di chiusura delle frontiere fra il 1966 (dopo l’eliminazione della nazionale azzurra dai mondiali d’Inghilterra per mano della Corea del Nord) e il 1980. Il tic autarchico, ripreso in un passato recente dalla Lega Nord, è un pezzo del doppio standard che in questo Paese continua a essere alimentato verso il flusso di calciatori provenienti dall’estero.
Si levano le lamentele contro il restringimento delle opportunità per “i nostri giovani”, ma al tempo stesso si fa pressione sui presidenti delle società per cui si tifa affinché vadano a caccia dei migliori talenti sul mercato estero. I doveri verso il talento di casa spettano sempre a qualcun altro.
Influenze diverse
Il calcio è un grande fenomeno migratorio. E come fenomeno migratorio è un caso a sé. Le sue catene della migrazione sono costituite secondo meccanismi non casuali, legati a eredità storiche e a influenze culturali, oltreché allo stato dei rapporti diplomatici fra i singoli paesi. In questo senso il calcio italiano mostra una traiettoria discontinua.
All’epoca dei maestri inglesi e dei pionieri svizzeri succede quella dei sudamericani (specie se oriundi), intanto che nel periodo fra le due guerre mondiali tocca gestire un rapporto ambivalente col calcio danubiano: fatto oggetto di ammirazione, perché in quella fase storica rappresenta l’espressione stilisticamente più raffinata del calcio europeo, ma al tempo stesso trattato con la dovuta diffidenza perché espressione del nemico storico sul piano bellico.
In questo senso i diversi passaggi d’epoca sono anche passaggi di ristrutturazione del mercato migratorio calcistico verso l’Italia. Che nel dopoguerra apre verso nuove rotte ma continua a mantenerne altre fuori dal proprio raggio (per esempio quella africana, che rimane appannaggio di paesi europei con una forte tradizione coloniale in quel continente come Francia, Portogallo e Belgio).
Bosman cambia tutto
La cauta riapertura delle frontiere a partire dall’estate del 1980 impatta su un movimento calcistico nazionale in crisi morale prima che tecnica. Il primo scandalo del calcioscommesse è il segno di più grave sofferenza per un movimento che necessita di uno scatto di innovazione e in questo senso l’arrivo della prima ondata di “nuovi stranieri” dà una scossa che va al di là dell’effettivo apporto tecnico alle squadre del nostro campionato.
La riapertura arriva dopo anni di polemiche fra le firme principali del nostro giornalismo sportivo sulla necessità di recedere rispetto alla scelta autarchica. Ma da lì in poi è stupefacente la velocità con cui si passa all’eccesso opposto. Già prima che la Sentenza Bosman rivoluzioni il panorama, i club della nostra Serie A fanno incetta sui mercati esteri ma si vedono porre dei limiti al numero di stranieri da impiegare sul terreno di gioco.
Dopo la sentenza, invece, pure alle società di Serie B viene consentito attingere al mercato estero. Le rotte migratorie si fanno più variegate e sullo sfondo e vedono giungere nel nostro paese schiere di calciatori che un tempo avremmo considerato esotici. Il mutamento dà idea di accelerare e presentare nuove varianti. Forse fra dieci anni sarà necessaria una nuova edizione di questo libro.
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