Dura requisitoria dei pm di Palermo. ll vicepremier cavalca il processo «politico» e vuole radicalizzare lo scontro, come Trump. Ma l’accusa smonta la sua linea: «Accentrava su di sé le decisioni». Meloni contro i magistrati: «Al ministro totale solidarietà»
La procura di Palermo ha chiesto sei anni di carcere per Matteo Salvini per sequestro di persona, rifiuto di atti di ufficio, e insomma, per aver impedito per giorni – nell’agosto 2019, da ministro degli Interni – lo sbarco di 147 migranti (32 minori) dalla nave Open Arms: «Il diniego alla concessione del posto sicuro di sbarco avvenne con intenzionale e consapevole spregio delle regole».
Mentre la procura si fa carico di «difendere i confini del diritto», la premier in persona va all’attacco della magistratura e in difesa dell’alleato: «Incredibile che un ministro rischi 6 anni per aver svolto il proprio lavoro difendendo i confini della nazione». La premier presenta la richiesta della procura come il tentativo «di trasformare in un crimine il dovere di proteggere i confini» e parla di precedente gravissimo. Anche Antonio Tajani, in perenne schermaglia con l’alleato leghista, stavolta serra i ranghi: «Salvini ha fatto il suo dovere di ministro».
Il Trump nostrano
Salvini, l’attuale vicepremier di un governo Meloni che tra dimissionari e inguaiati appare sempre più in affanno, radicalizza lo scontro perché tutto possa essere letto come «processo politico», come già a suo dire è avvenuto «con Trump e con Berlusconi». Le “gazebate” (così le chiama lo staff leghista), il palco di Pontida il 6 ottobre, il 18 l’arringa difensiva di Giulia Bongiorno: Salvini – che parla di processi politici ma come avvocata ha la presidente della commissione Giustizia del Senato rieletta con la Lega – affronta la condanna con una strategia doppia.
Da una parte si assenta, in senso fisico (in aula a Palermo non si è presentato) e figurato (a detta dei suoi difensori sul banco dei tribunali non c’è lui ma «una linea politica»). Dall’altra politicizza il caso, radicalizza lo scontro, mobilita la tribù elettorale leghista: in serata pubblica sui social un video su sfondo nero nel quale recita la sua versione. «Mi dichiaro colpevole di aver difeso l’Italia, gli italiani, la parola data».
In sintesi, il vicepremier prova a far passare l’idea che in tribunale sia finito non lui, ma un’intera linea politica. «Sul banco degli imputati non c’è una condotta di Salvini ma una linea politica»: lo ha detto proprio, questo sabato, Bongiorno. Ma la requisitoria della procuratrice aggiunta Marzia Sabella con i pm Calogero Ferrara e Giorgia Righi smonta tutta questa costruzione, a cominciare dall’argomento della difesa dei confini, e compreso il tentativo salviniano di spalmare la responsabilità del suo operato.
Un processo politico? «Qui di atto politico non c’è nulla: sono stati compiuti atti amministrativi. L’assegnazione di un porto sicuro è un atto amministrativo, non politico, come ha ribadito qui lo stesso ex premier Conte», ha ricordato Ferrara.
Cade la versione di Salvini
Salvini aveva «l’obbligo di indicare un posto sicuro per lo sbarco» per Sabella. Il tentativo della difesa di spostare l’attenzione dalle responsabilità individuali di Salvini viene di fatto disinnescato dal pm Ferrara: all’epoca dei fatti l’imputato aveva accentrato su di sé le decisioni. «Quando Salvini diventa ministro dell’Interno le decisioni sulla gestione degli sbarchi e del rilascio dei pos vengono spostate dal dipartimento Libertà civili e immigrazione all’ufficio di gabinetto del ministro, e in particolare è il ministro a decidere. Questo è l’elemento chiave». Nota Sabella che «le posizioni di Salvini diedero luogo a un caos istituzionale, ad approntare soluzioni di fortuna, e la guardia costiera si ritrovò in estrema difficoltà».
La requisitoria chiarisce che «il contrasto all'immigrazione clandestina non ha nulla che vedere con questo processo». Salvini in precedenza ha fatto riferimento a «questioni di sicurezza nazionale relative all’immigrazione clandestina». Nell'estate 2019 da ministro dell'Interno «per limitare lo sbarco decide che qualunque nave operi salvataggi in mare commette il “passaggio non inoffensivo” cioè pregiudizievole della sicurezza dello Stato. Ma per attuare questa norma servono elementi concreti, e nessuno di coloro che hanno deposto in questo processo – il prefetto di Agrigento, funzionari, ex ministri, ai quali abbiamo chiesto se vi fossero terroristi, criminali o rischi di altra natura a bordo – ha confermato tale dato», dicono i pm. «Siamo in presenza di persone in difficoltà in mare, uomini, donne e minori, che soffrono a cui sono stati negati i loro diritti fondamentali. Era infondato il rischio che a bordo della Open Arms, fra i naufraghi non identificati, ci fosse la presenza di terroristi».
«Nessuno era andato a controllare se avessero documenti», sarebbe stato «discriminatorio» dedurre che lo fossero solo sulla base della nazionalità. E soprattutto: «Elementi di rischio terrorismo non furono prospettati dalle forze dell’ordine al ministero». Ferrara spazza del tutto via l’argomento quando ricorda che «in base alle convenzioni internazionali, in presenza di un evento di soccorso in mare anche i criminali o presunti tali non possono essere lasciati in mare: devono essere salvati».
«Le condizioni psicofisiche dei migranti a bordo della Open Arms, in attesa dello sbarco, erano pessime». La pm Righi ricostruisce che «il 14 agosto iniziò lo scambio epistolare tra l'allora premier Conte e il ministro Salvini. Conte inviò la prima lettera sui soggetti minorenni e lo invitava Salvini ad adottare i provvedimenti adeguati».
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